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Il Medioriente è in fiamme ma per l'Occidente va tutto bene

Libia, Yemen, Tunisia, Egitto: tutto il mondo islamico sta precipitando in un conflitto dalle conseguenze imprevidibili. Ma le diplomazie chiudono gli occhi

 Per Lookout news

In questi giorni nelle sale cinematografiche italiane c’è in programmazione un film, “Fino a qui tutto bene” di Roan Johnson, il cui suggestivo titolo - citazione da l’Odio di Mathieu Kassovitz - si può ben applicare al contesto di instabilità che sta sconvolgendo la quotidianità di larga parte del Medio Oriente.

 Mentre la situazione continua a precipitare in Libia e il portavoce dell’ONU Bernardino Leon insiste a dire “fino a qui tutto bene, arriveremo presto a un governo di unità nazionale”, nelle stesse ore le milizie di Tripoli vengono respinte dallo Stato Islamico intorno ai giacimenti petroliferi di Bin Jawad e il generale Haftar seguita a bombardare il suo stesso popolo.

 Mentre lo Stato Islamico resiste all’assedio dell’esercito iracheno a Tikrit e il premier Al Abadi continua a ripetere “fino a qui tutto bene, stiamo per riprendere Tikrit e Mosul”, ISIS è libero di acquistare nuove armi e i suoi miliziani di imperversare anche nella stessa Baghdad, dove questa settimana hanno assaltato una stazione di polizia e sequestrato uomini, telefoni cellulari e forse armamenti. Mentre in Nigeria il presidente Goodluck Jonathan sostiene “fino a qui tutto bene, presto annienteremo definitivamente Boko Haram”, i miliziani guidati dal sanguinario Abubakar Shekau riescono tranquillamente a rapire oltre quattrocento persone nello Stato del Borno sotto gli occhi del governo di Abuja.

 Mentre il segretario di Stato americano John Kerry ribadisce “fino a qui tutto bene, siamo molto ottimisti sui negoziati per il nucleare con l’Iran”, Teheran arma le mani dei ribelli Houthi in Yemen e apre la strada a una guerra civile che coinvolge direttamente l’Arabia Saudita e il mondo sunnita, estendendo sempre più l’area dello scontro frontale con gli sciiti.

Yemen, specchio dello scontro tra Arabia Saudita e Iran
Fino a qui tutto bene, dicono. Ma se fino a questo momento va tutto bene, che succede dopo? L’Islam è in guerra con se stesso e non basteranno certo le litanie e i peana delle Nazioni Unite a risolvere questa crisi. Se anche la democratica Tunisia diventa vittima di questa nuova ideologia che tenta d’impossessarsi delle menti dei giovani musulmani per alimentare una guerra settaria e se nessun luogo è più sicuro nemmeno a Occidente, forse dobbiamo iniziare a pensare che osservare inermi il sud del mondo bruciare per i prossimi cinque o dieci anni tra le fiamme di scontri religiosi interconfessionali, non è esattamente la cosa giusta da fare.

 Mai come da quando l’Arabia Saudita ha bombardato lo Yemen in risposta al colpo di Stato sciita, ci siamo avvicinati a un conflitto su larga scala, che già adesso coinvolge un numero impressionante di Paesi e rischia di precipitare il Medio Oriente ancora più a fondo nella sua personale guerra mondiale.

 Una guerra che sinora è stata fatta per procura da milizie e clan rivali armati fino ai denti e pronti a scatenare il caos ovunque ci sia un obiettivo strategico, un nemico sunnita o sciita riconoscibile o un simbolo religioso da abbattere. Perché, non finiremo mai di ripeterlo, tutto ciò che accade oggi da Kabul a Tunisi, da Timbuctu a Sanaa, è maledettamente collegato. E lo Yemen oggi è l’ultima frontiera che cade.

 Una guerra che, se anche non dovesse sfociare in un conflitto di tipo tradizionale in cui si scontrano direttamente gli eserciti regolari, può portare il terrorismo fin dentro l’Arabia Saudita come in Iran, ma anche in Turchia, in Qatar e in tutto il Golfo Persico, e ha già attecchito nel turbolento Nord Africa, promettendo di continuare.

 

L’Egitto al centro di tutti, con la riunione della Lega Araba
Le divisioni interne all’Islam hanno già oggi prodotto milioni di profughi, decine di migliaia di morti, e alimentano un traffico d’armi spaventoso, tale che viene da credere non possa più essere arginato.

 Il mainstream mediatico occidentale si guarda bene dal riportare le notizie che vengono dall’Egitto, dove lo sforzo dell’anti-terrorismo ci racconta un Paese in cui ogni settimana vengono rinvenute bombe inesplose nei cantieri o dove i caffè, i fast food e i posti di polizia vengono fatti saltare in aria per minare il processo di laicizzazione del Paese e destabilizzare il Cairo, unico vero argine di un certo tipo di estremismo radicale che odia anzitutto la secolarizzazione.

 Il presidente dello Yemen, il sunnita Abdrabbuh Mansour Hadi, dopo il golpe sciita che lo ha costretto alla fuga si è rifugiato nella capitale dell’Arabia Saudita, e in queste ore sta raggiungendo l’Egitto, dove a Sharm el-Sheikh questo fine settimana che precede la Pasqua si terrà il summit della Lega Araba. Come ordine del giorno, il sumit avrà lo Yemen e la proposta egiziana per la creazione di una forza panaraba che possa intervenire nelle crisi regionali.

 Il Cairo ha, infatti, annunciato il proprio sostengo politico e militare per l’operazione in corso in Yemen contro i ribelli del movimento sciita Houthi. “Ci stiamo coordinando con l’Arabia Saudita e i Paesi arabi alleati del Golfo sulle modalità di partecipazione con forze aeree e navali, nonché terrestri se necessario, nel quadro della coalizione araba”, ha dichiarato il 26 marzo Sameh Shukri, ministro degli Esteri egiziano. Vedremo cosa sortirà da quell’appuntamento, che promette di essere un momento importante per la geopolitica del 2015.

 Ormai, troppi sono coinvolti in questa storica crisi: Marocco, Egitto, Sudan, Giordania, KuwaitBahrain, Qatar, EmiratiArabiUniti e Pakistan sono gli Stati sunniti schierati al fianco dell’Arabia Saudita per fermare l’avanzata sciita che dall’Iran si spinge fino in Siria. E lo Yemen è solo una tappa del percorso.

 Al tempo stesso, c’è una guerra nella guerra, quella contro lo Stato Islamico, dove la coalizione internazionale può contare su più di 50 Stati - Italia compresa - che, a vario titolo e secondo modalità diverse, partecipano militarmente o con la fornitura di armi. Tutti contro il Califfo Al Baghdadi, eppure non si riesce a estirpare il suo Califfato tra Siria e Iraq. Come mai? Forse perché lo Stato Islamico non è il problema del Medio Oriente, ma solo la sua conseguenza. E il nodo torna a essere lo scontro tra sunniti e sciiti, che corrisponde alla Guerra dei Trent’Anni dell’Islam. Dove ci porterà tutto questo? Fino a qui tutto bene.

 

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Luciano Tirinnanzi