Margelletti (Centro Studi Internazionali): "L’Europa stia attenta alla Turchia"
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Margelletti (Centro Studi Internazionali): "L’Europa stia attenta alla Turchia"

Intervista all'esperto di politica estera, che parla di Erdogan, di terrorismo e della lotta all'avanzata dello stato islamico

“La Turchia sta giocando una partita pericolosa. Erdogan è il principale responsabile. Per motivi di prudenza e rispettabilità diplomatica, l’Unione Europea e la Nato hanno sorvolato sui pericolosi eccessi del Presidente turco e del suo entourage di potere”. Andrea Margelletti, presidente del Ce.Si. (Centro Studi Internazionali) ex consigliere del ministero della Difesa non ha dubbi sulla posizione ambigua che sta assumendo la Turchia. E a Panorama.it dice: “La Ankara di oggi non è quella di Ataturk, ma è una realtà diversa, che ha riscoperto e rilanciato le proprie radici islamiste e che appare proiettata verso il Medio oriente e non verso l’Europa. Erdogan gioca una partita propria in grado di collidere sia con gli interessi di Washington che con quelli di Mosca.

Professor Margelletti, quali Stati sono responsabili per la crescita dello Stato Islamico?

Daesh nasce in Iraq a causa di politiche settarie ottuse di un Governo Maliki troppo attento ai propri interessi e a porre in essere una discriminazione nei confronti della comunità sunnita irachena per capire che così facendo stava fornendo terreno fertile agli oltranzisti di Baghdadi. Quelli stessi che hanno trovato risorse e spazio d’azione utile in Siria grazie alla sanguinosa guerra civile che attanaglia il Paese. Il terrorismo non è solo una questione di sicurezza, ma ha quasi sempre radici in problematiche economiche e sociali senza la cui soluzione non si può risolvere l’equazione complessiva.


Andrea Margelletti


L’Isis può essere sconfitto con azioni militari?

Se continuiamo a pensare al Daesh solo in termini militari, riusciremo forse anche a sconfiggere il gruppo, ma dopo Baghdadi avremo un altro predicatore del terrore, così come Bin Laden prima di lui. Il cuore del medio oriente è dilaniato da problematiche politiche e sociali, con scompensi economici e di diritti civili e umani troppo grandi per non comprendere che il seme della radicalizzazione sia proprio lì. La risposta militare è necessaria e prioritaria, ma l’equazione Daesh ha così tante incognite che un’unica soluzione è impensabile.


Daesh, il futuro della Libia, le politiche nucleari dell'Iran, il rapporto problematico con la Turchia, oltre alle frammentazioni del Medio Oriente sono la culla per lo stato islamico. E l'Europa li assorbe. Cosa fare?

L’Europa per troppo tempo è rimasta a guardare il proprio ombelico senza sentire le voci provenienti dal mediterraneo, forse per un calcolo che vedeva ancora la Russia come il “Nemico”. Per troppo tempo le Cassandre della stabilizzazione del mediterraneo quale priorità europea non sono state ascoltate e ci troviamo oggi nella necessità di dover gestire così tanti fronti che la scarsa prontezza politica europea non riesce a fornire risposte adeguate.


Professore, cosa pensa dell'idea di una superprocura europea antiterrorismo?

Tutti i tentativi di gestire collegialmente le tematiche di sicurezza in ambito europeo sono caduti nel vuoto, non essendoci un’unica politica europea. Pensare che questo possa accadere in ambito giuridico o di intelligence è pura utopia.

 Pensa che in Belgio, la polizia e i servizi di sicurezza abbiano chiuso un occhio per non avere attentati e “problemi” nel loro paese?

Fin dagli anni ’90 è stato posto in essere una specie di accordo di non belligeranza con esponenti di gruppi salafiti nordafricani presenti sul suolo belga. L’errore è stato non comprendere il cambio generazionale all’interno del mondo del radicalismo e l’evoluzione della minaccia che questo ha comportato. Non avere il controllo di porzioni importanti dell’ambiente urbano non è più tollerabile per la sicurezza europea.


Quali azioni per facilitare lo scambio di informazioni dell’intelligence dei paesi dell'Unione europea?

 Si tratta di un problema molto complesso. Infatti, dal punto di vista meramente tecnico e organizzativo, esistono già diverse metodologie e strutture atte alla condivisione di informazioni. Se proprio si volesse puntellare l’architettura del confronto tra le diverse agenzie di sicurezza ed intelligence, si potrebbe pensare a quanto fatto dal nostro Paese con il CASA (Comitato di Analisi Strategica Anti-Terrorismo), provando a creare un organo simile a livello europeo. Detto questo, il vero problema resta la volontà politica. Argomenti sensibili quali la condivisione di informazioni, la difesa e la sicurezza possono essere trattati efficacemente a livello europeo soltanto se tutti i Paesi membri acconsentono a farlo senza riserve e senza resistenze e comportamenti campanilistici. In questo momento, mancando una vera politica estera e di sicurezza comuni, la reale condivisone di informazioni e la creazione di una strategia di contrasto unica restano una chimera.

Il problema della guerra dell’IS è nel mercato europeo del gas?

Il problema della guerra al Daesh è nelle incongruenze delle politiche occidentali nella regione meridionale e all’interno del mondo arabo. Aver visto per troppo tempo nel conservatorismo iraniano un nemico più grande del wahabismo saudita non ci ha reso più sicuri e il rischio che si scoperchi il vaso di Pandora regionale è altissimo, con importanti ripercussioni per la sicurezza globale di cui stiamo ora vedendo il preambolo.

Sembra che anche il Kuwait ora voglia la sua parte al “banchetto” della "Connection Saudita". Cosa ne pensa?

Le monarchie del Golfo, con il distinguo del Qatar che è l’unica a non vedere nella Fratellanza Musulmana un nemico, si stanno allineando alle politiche saudite di lotta senza se e senza ma all’influenza iraniana, anche al costo di dover dorata “tollerare” la presenza del Daesh.

 
Israele in questo "grande gioco" di tattiche è alla finestra?

Israele vive ormai in quell’isolamento oltranzista che si è costruito negli ultimi anni. In questo momento, grazie anche alla grandissima instabilità della regione, non vive minacce dirette, ma non è detto che nel prossimo futuro questo non possa cambiare. Troppi i fattori di instabilità in Cisgiordania, troppi i problemi non risolti a Gaza, troppi i rischi che le dinamiche regionali trovino un nuovo sbocco in Libano che non riguardi la sicurezza del nord di Israele per non preoccuparsi. In più, la crisi economica continua ad avere degli strascichi nella politica interna israeliana e il populismo potrebbe essere sempre più forte come, attualmente, in tutti i Paesi occidentali.

E l’Egitto?

L’Egitto sta vivendo un momento difficile di ricostruzione istituzionale dopo gli sconvolgimenti della cosidetta “Primavera Araba”. Dietro l’immagine monolitica dell’apparato statale, al-Sisi deve tenere sotto controllo una miriade di partite parallele. Questo indebolisce il Paese e il Medio oriente senza l’impulso egiziano è una pericolosa regione senza guida.

Il gruppo terroristico nigeriano di Boko Haram da tempo appoggia lo Stato Islamico. Al Shabaab in Somalia sta ancora decidendo se aderire o meno al Daesh. In Nord Africa l’IS compete con al Qaeda, in particolare con i salafiti del Maghreb. Gli Usa sono preoccupati per questi movimenti terroristici in continua crescita in Africa. Quale scenario potrebbe delinearsi?

Alla base della crescita e del consolidamento dei movimenti jihadisti in Africa ci sono diversi elementi, tra i quali il vuoto politico lasciato da autorità statali assenti ed autoreferenziali, il profondo sottosviluppo, l’abilità dei terroristi nel soddisfare le necessità di gruppo etnici subalterni e vittime della povertà. Alla luce del perdurare di queste criticità sociali ed economiche, lo scenario futuro appare poco incoraggiante. Esiste il rischio che, al di là delle sigle, il fenomeno dell’insorgenza jihadista in Africa continui a crescere a macchia d’olio, soprattutto finché si proverà a combatterlo soltanto militarmente e senza efficaci programmi di sviluppo, cooperazione e de-radicalizzazione di contesti ad alta volatilità sociale.

 

 

 

 

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Anna Germoni