Emmanuel Macron
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Macron, il presidente en retro-marche

Ministri ballerini. Riforme ferme. Economia in netto rallentamento. E poi megalomanie, scandali, gaffe, ambiguità... In soli 18 mesi monsieur le président è finito in crisi. Con sondaggi disastrosi

Lo sparo con cui il povero agente della Garde républicaine il 6 novembre si è ucciso nei giardini di palais Matignon, denunciando con quell’atto estremo «lo stato di folle pressione» cui da mesi sarebbe sottoposto il corpo, è stato solo l’ultimo cupo rintocco in una sequenza di segnali negativi per Emmanuel Macron. Il novembre del presidente francese si era già aperto malissimo, con un crollo verticale nel gradimento: tutti i sondaggi ormai danno al 20 per cento il suo partito, République en marche, che oggi sarebbe clamorosamente battuto dal Rassemblement national di Marine Le Pen, al 21 per cento delle preferenze. 

I dubbi sul suo stato di salute

Come non bastasse, per molti giorni Macron è rimasto invisibile, non è comparso in pubblico. Si è parlato di stanchezza, improbabile in un uomo al culmine dei suoi 40 anni; addirittura di una depressione. Sul Financial Times, l’editorialista Wolfgang Munchau s’è spinto a scrivere che «la sparizione di Macron conferma le voci sul suo precario stato di salute» e che il leader di En marche sarebbe «a pezzi, isolato e incapace di prendere decisioni». Munchau ha anche elencato i segnali che testimonierebbero il disagio macroniano, a partire dai «sempre più frequenti sfoghi incontrollati»: il più recente in Slovacchia, dove monsieur le Président «si è riferito ai leader di Ungheria e Polonia come “teste folli”, che mentono alla loro gente con slogan antieuropei».

Da ultimo, ombre inquietanti si proiettano sull’Eliseo grazie ai sei arresti appena eseguiti per sventare un misterioso attentato, ordito ai danni del presidente. Depresso che sia o no, Macron è poi ricomparso e ha tentato di contrattaccare. Approfittando dell’anniversario dell’11 novembre, il centenario della fine della Prima Guerra mondiale, il presidente ha dato il via alle commemorazioni e s’è immerso in un tour de force che in sei giorni gli ha fatto toccare 11 dipartimenti e 17 città. Il programma è stato così intensamente dedicato al culto della sua personalità che Le Monde, ironico, ha scritto sia stato «concepito come una superproduzione dell’Eliseo, con Macron nei ruoli di capo d’orchestra, organizzatore e protagonista principale». Ma sarà difficile che il battage propagandistico, per quanto enfatico, possa fargli recuperare il consenso perduto. 

Gli atteggiamenti "napoleonici" sgraditi ai francesi

Quel che è sempre più evidente, infatti, è che dalla guida della sua En marche in crisi Emmanuel Macron è già finito in piena «retro-marche». Sembrano trascorsi secoli (e non 18 mesi appena) dal 14 maggio 2017, il giorno in cui il primo candidato indipendente nella storia repubblicana era volato all’Eliseo sulle ali di un 66 per cento di voti. Da allora, i francesi si sono presto disamorati di lui, soprattutto per certi atteggiamenti «napoleonici».

I primi dubbi sono sorti già quando alle prefetture era stata diffusa la tradizionale foto ufficiale del nuovo presidente, ma con un formato assai superiore a quello delle cornici da sempre utilizzate per esporre negli uffici l’immagine dei suoi predecessori. È così che Macron s’è guadagnato la fama di megalomane. L’utilizzo della reggia di Versailles per i summit internazionali, i conti astronomici pagati per la sua truccatrice personale (26 mila euro in due mesi) e la decisione di riaprire le battute di caccia presidenziali nel castello di Chambord, soppresse nel 1995 da Jacques Chirac, hanno fatto il resto.

L’ultima «botta» di megalomania è emersa lo scorso 7 novembre, quando per un capriccio Macron ha fatto saltare l’incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin, previsto a Parigi per domenica 11, proprio al culmine delle celebrazioni per il centenario della fine della Grande Guerra. Quel giorno, i due leader avrebbero dovuto cercare una soluzione alla nuova crisi dei missili, dopo la rottura del trattato Inf decisa da Washington. Invece non se ne farà nulla: il vertice è saltato per ordine di Macron, che ha così deciso «in modo da non oscurare gli eventi e gli incontri preparati dall’Eliseo».

In compenso sabato, sempre per suo volere, è stata trattata con tutti gli onori la memoria del maresciallo Pétain, tra coloro che guidarono l’esercito francese alla vittoria del 1918, ma poi a capo del regime collaborazionista di Vichy tra il 1940 e il 1944. «È stato un grande soldato», ha detto. «Siamo scioccati», il commento degli ebrei francesi. 

I peccati di ambiguità e arroganza

Ma in molti degli ultimi mesi Macron ha peccato di ambiguità e arroganza. Ai primi d’ottobre, per esempio, ha fatto scandalo la strana fotografia che gli è stata scattata durante un viaggio nelle Antille francesi: accanto al presidente, giovani a torso nudo, alcuni dei quali impegnati in gesti offensivi... I social network hanno giocato al massacro, anche perché solo poche settimane prima Macron a Parigi aveva rimbrottato un giovane che per strada aveva avuto l’ardire di appellarlo confidenzialmente: «Come va, Manu?». Stizzito, al limite dell’isteria, aveva replicato: «Ragazzino, tu qui sei in una cerimonia ufficiale e ti comporti bene. Quindi mi chiami “Signor presidente della Repubblica”, o “Signore”».  C

erto, alla sua immagine non ha giovato soprattutto lo scandalo che in luglio l’ha collegato alle intemperanze di Alexandre Benalla, suo responsabile della sicurezza: ex bodyguard di origini marocchine, Benalla è accusato di aver picchiato un uomo e una donna che partecipavano alle proteste antigovernative del 1° maggio, a Parigi. È vero che Benalla è stato licenziato, ma poi si è scoperto che aveva goduto anche di anomali favori all’interno dello staff presidenziale. Con un’ambiguità che da allora è rimasta sospesa nell’aria, come se un giorno dall’inchiesta potesse uscire chissà che.

Un segnale forte di crisi è venuto poi dalla difficoltà che negli ultimi tre mesi il governo del primo ministro Èdouard Philippe ha incontrato per le dimissioni di ben tre ministri d’intenso peso politico: quello dell’Ecologia, Nicolas Hulot, aveva mollato per primo a fine agosto, seguito poi da Laura Flessel, che aveva lasciato lo Sport a metà settembre, e ai primi d’ottobre addirittura dal responsabile dell’Interno Gérard Collomb. Il successore di Collomb, Christophe Castaner, è uno dei più fedeli uomini di Macron. Ma a sorpresa è stato affiancato da Laurent Nuñez, ex capo della Direzione generale della sicurezza interna, la sezione dei servizi segreti che in passato è stata aspramente criticata per le troppe falle lasciate aperte al terrorismo islamico. E proprio Nuñez oggi è il responsabile del coordinamento di polizia, gendarmeria e intelligence: la sua scelta è stata l’incoerente risposta macroniana all’opposizione di destra, che sul tema della sicurezza da anni attacca il governo. 

La popolarità in calo

E pensare che, dopo la vittoria alle elezioni, la popolarità del presidente nell’agosto 2017 era balzata ancora più in alto, al vertice assoluto (e storico) dell’81 per cento. Del resto, un anno fa l’economia andava più che bene: nel 2017 il Pil era cresciuto dell’1,9 per cento, il livello più alto dal 2011. Nel 2018, invece, la crescita finora è stata inferiore alle aspettative: nel terzo trimestre era previsto uno 0,5 per cento, mentre ci si è fermati allo 0,4. 

Un anno fa, la positività politica ed economica di Macron aveva modificato la percezione dei mercati internazionali: da Paese considerato «irriformabile», la sua Francia era divenuta un esempio positivo soprattutto grazie alla rapida approvazione della Loi travail, la riforma liberalizzatrice del mercato del lavoro che era anche la prima, grande promessa elettorale mantenuta. Gradita agli imprenditori, osteggiata dai sindacati, quando sono cominciati i licenziamenti la Loi travail ha poi acceso le piazze. Che non si sono più spente, soprattutto quando le riforme tributarie macroniane hanno allentato la pressione sulle fasce più elevate dei contribuenti cancellando l’Isf, Impôt sur la fortune, la super-patrimoniale che caratterizzava il sistema fiscale francese dal 1982. Fino al 2017 le entrate dell’Isf, che si applica più o meno alle 50-100 mila famiglie francesi più ricche, superavano i 4 miliardi di euro. Quest’anno si sono ridotte a 850 milioni. Così, soprattutto tra gli elettori che nel 2017 avevano tradito il Partito socialista per votarlo, sembra sempre meno credibile lo slogan iniziale di En marche, «Ni de droite ni de gauche» (né di destra né di sinistra).   

Per le proteste, oltre che per le difficoltà del governo, Macron è stato poi costretto a rallentare alcuni importanti provvedimenti. Come la riforma della Costituzione e la riforma previdenziale. Erano due fiori all’occhiello del programma di En marche, ma ora sembrano appassiti. Così, c’era una volta il presidente Macron; ma adesso la Francia deve accontentarsi di monsieur Micron. 


(Articolo pubblicato nel n° 48 di Panorama in edicola dal 14 novembre 2018 con il titolo "Il presidente en retro-Marche")

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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