Donald Trump
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Lo Stato dell'Unione di Trump: messa collettiva ma non per tutti

Retorica, 75 standing ovation e milioni di tweet. L’America profonda celebra se stessa in uno show quasi perfetto, a partire dal suo sacerdote bombastico

Lo State of the Union non è un messaggio. È una messa. Un rito laico nel quale il Presidente degli Stati Uniti presenta ai telespettatori americani la fotografa della Nazione e offre ai presenti in sala molte ragioni per alzarsi in piedi a celebrare.

Come ogni messa, assume i colori, le cadenze e i temi di chi la officia. Se il messaggio di Obama aveva un pubblico più variopinto, se il discorso verteva su temi globali, se gli assist ad alzarsi in piedi erano più rari, con Donald Trumpè andata in scena l’America profonda ed enfatica: il soldato eroe, il saldatore, il poliziotto, il dodicenne patriota.

Nel suo discorso costruito a scomparti successivi, Trump a collocato gli ospiti d’onore al termine di ciascun breve capitolo tematico, e lo ha fatto con assoluto senso del ritmo e senza mai sbagliare a leggere dal gobbo elettronico. Tempi perfetti per una retorica perfetta.

Per illustrare l’epocale taglio delle tasse Trump ha voluto tra il pubblico un’azienda della galassia dello small business. In Italia, con 14 addetti sarebbe una azienda media, ma per gli Usa è un’azienda familiare che ha assunto un saldatore afro americano dopo che questi aveva perso il lavoro nella recessione del 2009 (col Paese a guida Obama, messaggio sott’inteso); col nuovo impiego la vita del saldatore è di nuovo sui binari giusti e le sue due figlie hanno potuto continuare gli studi. Tutti in piedi, saldatore per primo, dai banchi repubblicani per l’ennesima standing ovation. Saranno 75 alla fine della serata. Obama si fermava a 30 scarse.

Stesso copione per il poliziotto che ha adottato un neonato da una madre tossicodipendente, per il soldato che nell’inferno siriano di Raqqa ha portato in salvo un commilitone, per le vittime della gang, per l’adolescente che ha dato vita al movimento per dare una bandiera a stelle e strisce ad ogni tomba di soldato morto assolvendo il dovere supremo.

Record di tweet innescati dallo show dell’America first; America che primeggia in ogni senso, e infatti la politica domestica ha dominato rispetto a quella estera e al globalismo obamiano. Trump è apparso ancora una volta il perfetto padrone di casa per un’America che probabilmente ha bisogno della sua narrazione per darsi ottimismo. Per darsi una speranza.

Le sgrammaticature politiche e anche quelle lessicali (un deputato dell’Arizona, Raul M. Grijalva, ha mostrato il suo invito ufficiale dove “State of the Union” è stato scritto con la “m” finale: “uniom”), sembrano essere il sigillo di una Presidenza che bada essenzialmente alla forza del messaggio iperbolico.

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Il tweet di Raul M. Grijalva, deputato dell'Arizona, nel quale si vede l'errore di ortografia sull'invito al discorso sullo Stato dell'Unione di Trump, 30 gennaio 2018
Twitter/Raul M. Grijalva‏  @RepRaulGrijalva

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Un’America bipolare quella di Trump, dove agli applausi della Chamber riunita in sessione comune (i democratici si alzano in piedi solo quando, simbolicamente, c’è l’interesse nazionale da omaggiare) fanno da controcanto i commenti delle star e degli analisti tv, molto poco indulgenti col Presidente.

Nancy Pelosi, capo indiscusso dell’opposizione (in attesa che l’ultimo dei Kennedy si faccia le ossa), in nero vestita, è rimasta impassibile tutta la sera. Il gioco dei colori potrebbe continuare col vestito di Melania (bianco, Hillary style) o le cravatte di Trump e del capo dei repubblicani al Congresso Paul Ryan, un blu molto più Dem rispetto al rosso che è il colore dell’old party repubblicano polverizzato da Trump nell’ascesa alla Casa Bianca.

Con Trump il discorso sullo Stato dell’Unione rasenta il nostro Festival di Sanremo dei momenti social, della commozione e dell’empatia. Sembra che al termine di questa maratona di emozioni Trump si sia sentito poco bene, stremato dallo sforzo. E c’è chi, con sarcasmo, ha parlato di eccesso di buoni sentimenti per un cuore e un cervello abituato ad altre passioni.

Il Russiagate è stato, infine, il grande assente di una serata, a ben guardare, molto ma molto putiniana. Nel senso che il patriottismo, il culto dell’uomo forte al comando, la fiducia nel militarismo come deterrente, la old school in una parola, sono state il collante di uno show nazional-popolare.

Non era lecito attendersi una serata differente. Trump l’ha modellata a sua immagine e somiglianza e questa è la legge della democrazia. Certo la politica, a qualsiasi latitudine, non può limitarsi ai tweet e alle ovazioni, al fard e al riporto audace, agli slogan e alla retorica. Non può ma spesso lo fa.

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Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

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