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L’Italia migliore in Europa nel contenimento del terrorismo. Ma non basta

Un'analisi, a partire dall'articolo di The Guardian, sul perché l'Italia è stata finora "risparmiata" dal terrorismo islamico

In elogio dell’antiterrorismo italiano, il quotidiano britannico The Guardian ha pubblicato lo scorso venerdì 23 giugno un interessante articolo dal titolo Perché negli ultimi anni l'Italia è stata risparmiata dagli attentati terroristici?.

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Nel pezzo di Stephanie Kirchgaessner e Lorenzo Tondo, compaiono voci autorevoli a commentare il “successo” dell’aver finora evitato attacchi terroristici su larga scala nel nostro paese: dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, all’ex direttore del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza (DIS), l’agenzia che coordina i servizi interno ed esterno, Giampiero Massolo.

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L’articolo sostanzialmente sottolinea le provate capacità dei nostri reparti di controterrorismo nel far fronte a fenomeni in larga parte già conosciuti, visto che il nostro Paese ha già subito "la sua parte di violenza politica negli ultimi decenni".

Dunque, l’esperienza conta. Le nostre regole d’ingaggio, inoltre, consentono di applicare normative ferree contro i possibili soggetti radicalizzati. Tra queste, lo strumento dell’espulsione - 135 provvedimenti applicati a oggi - che, messo in moto ancor prima della comparsa dello Stato Islamico (autore della maggior parte degli attentati terroristici in Europa negli ultimi tre anni), ha consentito di allontanare la minaccia dalla penisola.

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Le autorità dell’antiterrorismo italiano, secondo le cifre del ministero dell’interno citato dal Guardian, hanno fermato e interrogato 160.593 persone tra marzo 2016 e marzo 2017, di cui 34mila circa negli aeroporti.

Questo ha portato all’arresto di circa 550 sospetti terroristi e alla condanna per 38 di questi. E poi c’è stato il costante monitoraggio di internet e dei social media: oltre 500 siti web inneggianti al jihad sono stati chiusi e oltre un milione risultano tuttora monitorati dalle forze di polizia.

Questo, unito a sistemi consolidati come l’infiltrazione negli ambienti radicalizzati da parte di agenti sotto copertura, e all’esperienza dovuta a sistemi che hanno già funzionato in precedenti casi di terrorismo (dalle Brigate Rosse al terrorismo nero), hanno fatto sì che l’Italia abbia potuto emergere per una volta come l’esempio da seguire in Europa per mettere in campo efficaci misure di sicurezza.

Le grandi concentrazioni multietniche

Anche se, in definitiva, il problema del contenimento non è una soluzione in sé. E la chiave per evitare di cadere nella spirale del terrorismo in futuro è anche altrove. Come rileva con lucidità al Guardian Francesca Galli, esperta in politiche di anti-terrorismo dell’Università di Maastricht "La differenza principale è che l'Italia non ha una popolazione di immigrati di seconda generazione radicalizzata o che potrebbe essere radicalizzata".

Questo concetto va spiegato meglio. E lo può fare solo la statistica. Un milione e mezzo di immigrati di religione musulmana, in questi anni purtroppo serbatoio del terrorismo in Europa, contro i sei milioni e oltre della Francia.

Quel che Galli ha probabilmente voluto sottolineare è che l’Italia non ha conosciuto ancora le terze o quarte generazioni di immigrati, perché la limitata esperienza coloniale non ha portato il nostro Paese a vivere il fenomeno delle grandi concentrazioni multietniche di cittadini originari delle ex colonie. I quali, spesso, vivendo in condizioni economiche di disagio, trovano qui l'humus ideale per aderire al terrorismo, sobillati dagli elementi più radicali delle società che essi rappresentano.

E, di conseguenza, in Italia non si è ancora creato il sintomo della radicalizzazione ovvero l’emergere dei ghetti metropolitani sul modello di Molenbeek a Bruxelles, dell’East London o delle banlieue parigine. Da noi, infatti, si è preferito spalmare su tutto il territorio quegli immigrati che, ad esempio, giungono a migliaia dal Mediterraneo o dalle rotte balcaniche.

Questo ha fatto arrabbiare non poco molti piccoli comuni italiani, spesso incapaci di accogliere un così alto numero di stranieri, e ha fatto gridare all’invasione da parte della Lega. Ma, almeno dal punto di vista della sicurezza, si è rivelato un sistema vincente e più facilmente controllabile da parte delle autorità.

Sotto controllo, ma per quanto?

Dunque, i pochi elementi sovversivi presenti in Italia - che pure esistono - non sono ancora riusciti a creare reti capillari tra loro che fossero adeguate alle esigenze logistiche dei terroristi e potessero costituire basi per raccogliere armi, maturare attentati o nascondere gli attentatori dopo un’azione. Come invece è accaduto con Salah Abdeslam, uno degli assassini del Bataclan (i sanguinosi fatti di Parigi del 13 novembre 2015) che dopo gli attentati è tornato comodamente a Bruxelles, dove è riuscito a nascondersi per ben quattro mesi senza mai spostarsi dal quartiere di Molenbeek, perché aiutato da familiari e amici.

Questa mescolanza della popolazione non italiana in cui si nasconde una percentuale potenzialmente eversiva, combinata con l’attenzione dedicata al fenomeno migratorio e ai buoni rapporti dell’intelligence con i servizi segreti del Nordafrica, e unita agli strumenti legislativi di cui i nostri reparti di sicurezza dispongono (intercettazioni, espulsioni e tecniche consolidate di controterrorismo) hanno ridotto le capacità di azione del terrorismo internazionale sul territorio italiano. E questo vale anche per gli italiani radicalizzati.

Infine, l’Italia non rappresenta un obiettivo prioritario del terrorismo islamista, perché funge da linea di comunicazione e di collegamento con l’Africa e il Medio Oriente.

Contenere non basta

Ciò detto, sbaglieremmo di grosso a lodarci come fanno i britannici, che invece ne hanno tutto il diritto, essendo loro nel mirino dell’estremismo islamico da molti anni. Giustamente il Guardian considera il modello italiano come un esempio da seguire. Tuttavia, sedersi sulle proprie certezze sarebbe controproducente, oltre che miope.

Il fenomeno del radicalismo islamico, purtroppo, è lontano dal conoscere una diminuzione e, anzi, col dissolversi del Califfato Islamico in Siria e Iraq, diventerà una minaccia ancor più forte. Questo perché il passaggio dalla fase di guerra a quella della guerriglia è naturale e persino inevitabile per le formazioni terroristiche. È in ogni manuale e in ogni precedente esperienza dei rivoluzionari di ogni parte del mondo (non va, infatti, dimenticato che i jihadisti ritengono che la loro lotta sia una atto rivoluzionario).

Nella fase di guerriglia si tentano sempre nuovi colpi eclatanti e scenografici, tali da poter dare l’illusione al mondo che la causa per cui essi lottano non è a un binario morto, che non sono sconfitti, che anzi sono vicini al compimento del loro progetto. E non c’è miglior palcoscenico dell’Unione Europea, debole e disunita, incapace a contenere non solo il fenomeno, ma a trovare soluzioni politiche e culturali adeguate chi ne fa parte. E l’Italia, in questo senso, non è né può considerarsi immune.

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Luciano Tirinnanzi