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L’intervento in Libia ci sarà: con o senza accordo di governo

Non c'è più tempo per una missione internazionale sotto l’egida dell’ONU: si rafforza l'ipotesi di una guerra unilaterale, con l'Italia in prima linea

Per Lookout news

L’intervento militare internazionale in Libia è pronto. Se il capo di stato maggiore americano, generale Joseph Dunfrod, lascia trapelare che un intervento militare diretto è possibile già tra “poche settimane”, altre fonti d’intelligence riferiscono che anche gli incursori della Marina italiana si stanno esercitando e sono pronti ad affrontare ogni scenario possibile. L’azione, insomma, è descritta come “imminente”, anche se non se ne conoscono ancora i dettagli.

Sulle coste libiche, intanto, lo Stato Islamico consolida le proprie posizioni a Sirte, città natale di Gheddafi e di una nutrita schiera di gheddafiani, che hanno fornito ai miliziani di Al Baghdadi il loro appoggio perché questi potessero gettare le basi per avanzare indisturbati nel bacino della Sirte, ricco di petrolio. Una situazione che ricorda tanto quella dell’Iraq, dove gli ex uomini di Saddam Hussein sono confluiti nell’esercito sunnita del Califfo per muovere guerra agli sciiti iracheni e riconquistare il potere.

 A frenarli, sinora, è stato il loro numero esiguo in Libia - comunque non inferiore alle 5mila unità - e lo sforzo delle truppe al comando del generale Khalifa Haftar, l’uomo più discusso e divisivo del paese, plenipotenziario secondo il governo di Tobruk, usurpatore secondo gli islamisti di Tripoli.

Come è divisa politicamente la Libia?
La situazione sul campo, difatti, riflette la spaccatura politica libica generatasi dopo la destituzione del rais: Tobruk, il governo internazionalmente riconosciuto, ha l’appoggio dell’Occidente e dell’Egitto (Haftar è, per così dire, uomo di Washington) ma non esercita un potere reale sul territorio nazionale, se non in un’area risibile. Le sue truppe non sono riuscite ad avere la meglio né contro i ribelli di Bengasi né ad essere decisive in nessuno scontro con le altre fazioni islamiste oggi afferenti allo Stato Islamico. Motivo per cui Haftar non è stato scelto come Ministro della Difesa.

 Mentre il governo di Tripoli ha sostanzialmente congelato la guerra, in attesa degli accordi politici che sono infine giunti attraverso il duro lavoro diplomatico dell’ONU, sbloccato anche grazie alla dipartita del pessimo Bernardino Leon e alla sua sostituzione con il più pragmatico Martin Kobler.

 Ieri, 25 gennaio, sarebbe dovuta arrivare una prima rasserenante notizia: l’accordo sul nuovo governo di unità nazionale. Ma Tobruk l’ha respinto. Questa è una notizia negativa solo a metà: infatti, se da un lato si rinvia di una settimana la formazione del nuovo governo, dall’altro si certifica la volontà di arrivare a un accordo. Si tratta “solo” di una questione di nomi.

Alcuni dei 32 soggetti che sarebbero divenuti ministri secondo la prima lista sottoposta a votazione, infatti, è parsa agli occhi di molti inverosimile e non adeguata alla situazione. Ma almeno cercava di essere inclusiva e di rispettare le molte anime che compongono il mosaico etnico-tribale libico. Poco male, si dirà. Basterà accordarsi su una serie di nomi più ristretta e rispondente alle esigenze reali del paese, senza che vengano inclusi gli incapaci o gli autisti dei vecchi politici. Facile a dirsi, più difficile a realizzarsi.

 

Quanto è imminennte l'attacco?
Il procrastinare della formazione di un governo di unità nazionale è un gioco assai pericoloso, e non fa che rafforzare la nascente “provincia dello Stato Islamico in Libia”. Anche perché senza un governo unico riconosciuto dall’ONU, non ci potrà essere quell’invito formale a dare il via alle operazioni militari contro lo Stato Islamico. Ed è questo il crinale scosceso dal quale tutto rischia di precipitare.

Se non ci dovesse essere un invito ufficiale alla guerra per spazzare via ISIS dalla Libia, infatti, Stati Uniti e alleati - Italia in primis - avranno “mani libere” a un intervento unilaterale. Un fatto che pare già deciso. E qui è il punto.

Se anche l’intervento militare occidentale dovesse produrre un iniziale successo sul campo, ciò non farà altro che rinfocolare tra la popolazione locale (e non solo) quei sentimenti anticolonialisti e quella propaganda antioccidentale che già hanno fatto la fortuna di numerose milizie sul suolo africano e mediorientale. Così che tutto, presto o tardi, potrebbe ricominciare da capo.

Scongiurare il peggio è possibile?

Oggi la Libia è specchio del più generale caos geopolitico seguito alle primavere arabe e di fronte al quale è emersa una forza trasversale e anomala che ha nome Califfato, e di fronte alla quale l’Occidente è rimasto per troppo tempo ingessato dalla burocrazia e abbagliato dall’inadeguatezza di analisi che hanno poi prodotto il disastro attuale.

 Dall’altra parte, invece, c’è un nemico che si muove velocemente e sparge sangue in nome di un odio settario che è divampato ovunque anche in Africa e che si alimenta di un network sofisticato ed efficiente, che sinora ha garantito ai numerosi nuclei jihadisti rifornimenti di armi e uomini impressionanti.

 Un nemico che agisce secondo schemi che neanche i servizi d’intelligence occidentali riescono a monitorare e a comprendere a fondo. Perché? Semplicemente perché quello non è il loro territorio. Un esercito straniero non potrà mai arrestare definitivamente l’emorragia jihadista, perché non ne conosce le dinamiche e ignora le fonti di cui si alimenta.

 Meglio sarebbe stato se i governi che si apprestano a condurre un’azione militare sul suolo libico, avessero sostenuto senza timore l’Egitto dei militari, paese-ponte tra Africa e Medio Oriente e l’unico vero argine al divampare del jihadismo internazionale. Un intervento deciso del Cairo, magari supportato da una coalizione di paesi vicini e alleati, avrebbe potuto arginare con maggiore efficacia gli uomini dello Stato Islamico e avrebbe allontanato la minaccia dall’Europa, che invece sta divenendo sempre più concreta.

Magari non sarebbe andata così, ma forse ciò avrebbe evitato all’Occidente di ritrovarsi ancora una volta in guerra e ancora una volta a non risolvere definitivamente la situazione.

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Luciano Tirinnanzi