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Libia: l'attivismo inglese e francese e l'attendismo italiano

I nostri 007 sono tutti nelle retrovie, mentre Londra e Parigi non stanno a guardare. Obiettivo: spartirsi il Paese

Per Lookout news

 

“Scarsa”. “Limitatissima”. In altre parole, insufficiente. È la presenza attuale dei nostri servizi segreti in Libia. A riferirlo sono fonti libiche. I pochi uomini dell’Aise (il servizio estero) presenti sul campo in questo momento sarebbero impiegati solo come agenti d’influenza per le intermediazioni. Niente armi, insomma, solo negoziati preliminari. E i loro interlocutori privilegiati non sono le milizie che combattono sui fronti più caldi, piuttosto le numerose tribù del sud della Libia, genericamente definite qabila, che corrispondono a quel centinaio e più di gruppi beduini, arabi e berberi.

 

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Sebbene questa sia una tradizione nella tessitura dei rapporti italo-libici, tale rompicapo diplomatico è giudicato inestricabile dagli altri servizi segreti occidentali. Motivo per cui gli agenti segreti di Francia e Regno Unito - la cui presenza è giudicata invece “pesante” - si sono mossi diversamente e si trovano già oggi sul fronte di guerra, come rivelato anche dal quotidiano Le Monde, che ha ribattezzato l’attivismo dell’Eliseo come “la guerra segreta di Parigi”.

I servizi francesi e inglesi
Se il peso della nostra intelligence sulla costa - cioè nel teatro più caldo della guerra allo Stato Islamico - è ancora trascurabile, al contrario le operazioni militari a Bengasi sono di fatto in mano ai francesi: forze speciali in uniforme del COS (Commandement des Opérations Spéciales) sono di stanza nella base aerea di Benina e, in coordinamento con il colonnello libico Salim Al-Abdali, combattono per consegnare Bengasi al generale Haftar, sponsor del governo di Tobruk. Mentre gli agenti della DGSE (Direction générale de la sécurité extérieure), sono sul territorio libico già dal tempo delle operazioni in Mali, per fornire informazioni e preparare il terreno alle unità d’attacco.

 A Tripoli e Sabratha operano attivamente gli inglesi, di concerto con gli americani e con le stesse unità francesi. Proprio Sabratha, 100 km a ovest di Tripoli, è stata teatro dell’uccisione di due nostri connazionali, rapiti lo scorso luglio a Mellitah, non lontano dal confine con la Tunisia. Sulla loro fine, avvenuta nel corso di un blitz di milizie locali non meglio definite, è ancora mistero fitto (e presto ci sarà da chiedere conto).

 Come misteriose, o meglio coperte da segreto di Stato, sono le modalità d’ingaggio del nostro servizio segreto esterno, definite dal governo all’indomani del Consiglio Supremo di Difesa presieduto dal presidente Mattarella e dal premier Renzi, che ha stabilito le linee guida dell'intervento libico: ciò che è trapelato sinora è che l’Aise coordinerà i corpi speciali delle nostre Forze Armate, che cresceranno fino a raggiungere la cifra totale di tremila soldati. È tutto nero su bianco nei 5 articoli del decreto emanato dalla Presidenza del Consiglio, atto ovviamente secretato e che, per tale ragione, ha generato congetture, polemiche e speculazioni giornalistiche.

 In ogni caso, gli inglesi confidano di poter gestire la guerra allo Stato Islamico (e alle altre forze islamiste) seguendo il modello già attuato nel 2011: bombardamenti mirati e supporto logistico di terra, di concerto con gli alleati. Ad esempio, il raid americano del 19 febbraio a Sabratha che ha ucciso il terrorista tunisino Nourredin Chouchane e decapitato una cellula ISIS, sarebbe stato pianificato di concerto con l'intelligence francese e anche con caccia inglesi partiti dalla base di Lakenheath, nel Suffolk inglese, e transitati sullo spazio aereo francese prima di raggiungere la Libia.

 

I timori del governo italiano
Se il premier Matteo Renzi sta facendo di tutto per frenare il nostro coinvolgimento militare, è pur vero che “il tempo non è infinito”, come lui stesso ha affermato in occasione del summit con il collega francese Francois Hollande. Ciò sta, però, a significare qualcosa di più che l’insofferenza di Roma per il boicottaggio del governo di unità nazionale libico, attuato dagli stessi costituenti.

 La linea italiana è chiara: solo ciò che discenderà dagli accordi tra la coalizione internazionale e il governo unitario libico, è considerata la strada percorribile perché i nostri soldati mettano piede in Libia. Senza, infatti, non si può dare avvio al piano d’intervento militare massiccio, come concordato con gli Stati Uniti e come previsto dalle Nazioni Unite. E neanche si vuole utilizzare l’intelligence in maniera massiccia a quanto pare, anche se qui le motivazioni sono meno chiare.

 Palazzo Chigi teme soprattutto che si realizzi lo scenario più gradito a Parigi e Londra, le quali hanno già previsto la spartizione del paese secondo precise aree d’influenza che, molto sommariamente, darebbero a Parigi il controllo sul Fezzan, a Londra la Cirenaica e all’Italia lascerebbero la Tripolitania. Scippare, insomma, ai libici il proprio destino e tornare a una divisione del paese, secondo logiche economiche e commerciali d’antan.

 

Gli interessi economici e le prospettive
Di mezzo, ci sono i soliti grandi interessi: come lo sdoppiamento della compagnia nazionale del petrolio (la Noc Libica), che andrebbe in favore di Bengasi e della Cirenaica, dunque agli inglesi; e, ancor prima, la gestione dell’esercito libico al comando del generale Haftar, che vorrebbe ripulire Bengasi e imporre un protettorato libico-egiziano sulla regione.

 Anche qui gli interessi di Roma collidono con quelli inglesi: la scoperta da parte dell’ENI dell’immenso giacimento di fronte alle coste dell’Egitto è un primato italiano che, tuttavia, gli inglesi vorrebbero scipparci, grazie alle entrature di Londra presso il governo egiziano. E favorire oggi Haftar, porterebbe domani Londra sempre più vicina al Cairo. Numerosi altri esempi si potrebbero portare, dalla Banca libica agli interessi di Russia e dei paesi del Golfo per questo paese. La lista è lunga e porta molto lontano dallo Stato Islamico, che è sì un pericolo in Libia ma non tale da essere paragonato agli scenari siriani e iracheni.

 Dunque, come muoversi in questa delicata partita? Il rischio di creare un nuovo pastrocchio, come già lo fu la detronizzazione di Gheddafi, è dietro l’angolo. Proprio per questo, d’ora in avanti bisognerà avere maggiori informazioni da parte dell’intelligence (!) e lungimiranza da parte dei governanti, per agire nella maniera che più si confà agli interessi italiani.

 Per adesso, comunque, nessun italiano si trova nelle prime linee del conflitto. Il nostro governo è sinceramente ancora orientato a operare secondo il piano definito dalle Nazioni Unite, nonostante il tempo stringa. Solo quando il governo di unità libico sarà in carica, si potrà dare il via a un intervento per “salvare la Libia”, se è ancora possibile farlo. Ma se i primi nemici della Libia sono proprio i suoi alleati, ha ancora senso tentare di restare uniti?

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Luciano Tirinnanzi