Samir Geagea
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Libano, il leader cristiano-maronita: “Noi baluardo contro l’ISIS”

Dalo Stato islamico a Hezbollah: parla Samir Geagea, candidato alla presidenza della Repubblica del Paese dei cedri

 di Bernard Selwan El Khoury per Lookout news

 

Le stesse montagne che centinaia di anni fa hanno protetto i cristiano-maroniti del Libano, portandoli a costruire lo Stato libanese moderno, oggi proteggono uno dei principali leader della comunità cristiana libanese, il Dr. Samir Geagea, capo del partito politico “Le Forze Libanesi” e candidato alla Presidenza della Repubblica. Il nostro appuntamento con il Dr. Geagea, soprannominato “Hakim” (“Saggio” o “Medico”), per la sua laurea in Medicina, è alle ore 15:30 nella sua residenza e sede del partito, a Maarab. “Pronto, tutto bene?”, ci chiede al telefono un membro dell’ufficio stampa di Hakim. “Siamo in anticipo di 45 minuti, abbiamo voluto aspettare per non disturbare”, gli diciamo, ma lui insiste: “Siete i benvenuti, accomodatevi, vi stiamo aspettando”, ci dice l’addetto stampa, non tradendo la storica e rinomata ospitalità libanese.

Maarab è una cittadina situata nel cuore del Monte Libano, e domina il Golfo di Jounieh, a nord di Beirut. Giunti a Maarab non c’è bisogno di chiedere indicazioni: ad accoglierci vi è una grande immagine che ritrae un sorridente Hakim vicino a sua moglie On. Setrida Geagea, deputato del Parlamento libanese. È il segnale che siamo nel quartier generale delle Forze Libanesi. È qui che nel 2012 il Dr. Geagea scampò a un attentato.

Ad accoglierci nella sua residenza non troviamo l’immagine distorta del Dr. Geagea che ci presenta la versione italiana di Wikipedia: di fronte a noi vi è un uomo dagli occhi vivaci e fieri, che all’esilio scelse, nel 1994, di rimanere nel suo paese, consapevole che sarebbe stato arrestato dopo l’emanazione di una condanna costruita ad hoc e voluta dal regime siriano al quale si opponeva e continua ad opporsi. Hakim fu imprigionato il 21 aprile 1994, e trascorse in una minuscola cella del Ministero della Difesa 4114 giorni. Come ricorda lui stesso, quei giorni anziché piegarlo fisicamente e psicologicamente, lo hanno rafforzato, rendendolo un’icona di resistenza, fede e libertà agli occhi dei suoi sostenitori. E per non dimenticare quei giorni, il Dr. Geagea ha fatto ricreare nella sua residenza la stessa cella in cui era prigioniero. Tornato in libertà il 26 luglio 2005, Hakim trascorse tre mesi all’estero per cure mediche, e tornò nel Paese dei Cedri il 25 ottobre, giorno del suo compleanno. Conscio del fatto che la guerra è una tragedia in cui si commettono errori, e a differenza di altri protagonisti della guerra libanese, Hakim dichiarò nel settembre 2008: “Mi scuso profondamente per tutti gli errori che abbiamo commesso negli anni della guerra civile, mentre stavamo assolvendo ai nostri doveri nazionali. Chiedo a Dio e al popolo di perdonarci”.

Il giorno in cui il Dr. Geagea ha deciso di accoglierci – il 2 giugno – è un giorno storico per l’Italia, e lo diventerà anche per il Libano, andando così a cementare un rapporto storico – quello tra Italia e Libano – iniziato diversi secoli fa. Un’ora dopo il nostro incontro, Hakim sarebbe andato a fare visita al “General”, come è noto in Libano il Generale Michel Aoun, leader del partito “Corrente Patriottica Libera”, storico antagonista di Geagea e secondo candidato alla Presidenza della Repubblica, una carica che secondo il “Patto Nazionale” libanese spetta a un cristiano maronita. Una visita storica, attesa da oltre 20 anni, che potrebbe dare un nuovo impulso al ruolo della comunità cristiana libanese.

Negli stessi giorni, il Dr. Geagea ha ricevuto una visita eccellente, che dimostra l’attenzione dell’Italia, e in particolare della Santa Sede, a quanto sta accadendo nel Paese dei Cedri. Il Cardinale Dominique François Joseph Mamberti, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica della Santa Sede, a capo della delegazione, durante la sua visita al Dr. Geagea, ha esortato i responsabili libanesi ad eleggere nel più breve tempo possibile un Presidente della Repubblica, facendosi portavoce della preoccupazione di Papa Francesco per l’attuale fragilità della comunità cristiana libanese e, assieme ad essa, di quella mediorientale. Una preoccupazione condivisa con l’amministrazione americana, il cui ambasciatore in Libano, David Hale, ha recentemente incontrato, tra gli altri, proprio Samir Geagea.

L’intervista che il Dr. Geagea ci ha rilasciato in esclusiva giunge in un momento delicato e particolare non soltanto per il Libano ma per l’intera regione mediorientale. Il Paese dei Cedri è senza un Presidente della Repubblica dal 25 maggio 2014, e ciò rispecchia la spaccatura creatasi in seno alla comunità cristiana libanese tra sostenitori di Geagea e sostenitori di Aoun. Questo ingombrante vuoto di potere si sta ripercuotendo in modo negativo non soltanto sulla vita istituzionale del paese, ma anche su quella socio-economica. Inoltre, incombe sul Libano la minaccia dell’ISIS, nonostante l’esercito libanese e gli apparati di sicurezza nazionali stiano monitorando con assiduità la linea di confine per evitare infiltrazioni. “L’Occidente ha paura dell’ISIS, noi in Libano diciamo all’organizzazione: tfaddalou (accomodatevi), vi stiamo aspettando”, ci hanno detto diversi cittadini libanesi (cristiani) che hanno preso parte alla guerra civile del 1975-1990. Si tratta di dichiarazioni rese da uomini che durante la guerra civile si sono trovati a combattere contro guerriglieri palestinesi e mercenari arabi a volte più spietati dei jihadisti dell’ISIS, per difendere i villaggi cristiani che altrimenti oggi non esisterebbero. Tuttavia, quella dell’ISIS è una minaccia che le istituzioni libanesi non stanno sottovalutando, come ci ha confermato il Dr. Geagea, mentre ci invitava a sederci nel suo ufficio personale.

Come valuta l’assenza di un Presidente della Repubblica, e quali sono le conseguenze di questa assenza?
«
L’assenza di un Presidente della Repubblica causa un vuoto non soltanto nella Presidenza ma anche nella vita politica del paese. Le attività dello Stato sono tutte paralizzate, e questa paralisi istituzionale ha diverse ripercussioni, sia sulla situazione generale nel Paese che su quella economica. In questo senso, il vuoto presidenziale è molto grave e dannoso, e il nostro obiettivo è quello di colmarlo nel più breve tempo possibile».

Oltre a lei, quali sono gli altri candidati alla Presidenza della Repubblica e di quale sostegno godono?
«Il Generale Aoun, nonostante non abbia ufficialmente annunciato la propria candidatura, è tra i candidati di spicco. Ci sono altri nomi sul tavolo, ma non si sono ancora candidati ufficialmente. Per quanto riguarda i sostegni nazionali, il generale Aoun gode del sostegno più o meno ampio della Coalizione 8 Marzo [guidata da Hezbollah, ndr] ed io sono sostenuto dalla Coalizione 14 Marzo».

A che punto è il dialogo avviato tra le Forze Libanesi e la Corrente Patriottica Libera?
«Questo dialogo doveva cominciare tanto tempo fa, ma, come dicono i francesi, mieux vaut tard que jamais, meglio tardi che mai! Stiamo cercando di andare oltre le divisioni politiche esistenti, ma non è una cosa semplice, perché i programmi politici delle due coalizioni in alcuni casi sono diametralmente opposti. Nonostante ciò stiamo lavorando attivamente per trovare dei punti in comune. Io ritengo che finora abbiamo ottenuto dei successi, almeno nella prima fase, nella speranza che in futuro possiamo trovare accordi su altri punti».

Come è a suo avviso la situazione generale in Libano, se confrontata a quella dei Paesi vicini? E che ruolo sta giocando l’esercito libanese?
«Se consideriamo ciò che sta accadendo nell’intera regione, soprattutto in Iraq e Siria, possiamo affermare che la situazione in Libano è ancora a livelli sostenibili, nonostante le tensioni derivate dall’assenza di un Presidente della Repubblica. Ciò che dobbiamo fare noi come libanesi è tenere lontano dal Libano il fuoco delle tensioni e degli scontri in atto nei paesi vicini. Per quanto riguarda l’esercito libanese, questo sta svolgendo un ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza nazionale, in un contesto – quello mediorientale – generalmente instabile».

Quali sono gli effetti sulla situazione socio-economica del Libano?
«È ovvio che quando non c’è uno Stato attivo e dinamico, non può esserci, di conseguenza, neanche un’economia attiva e dinamica. La nostra economia, anziché registrare un tasso di crescita del 7-9%, necessario per un paese come il nostro che ha un debito pubblico di 65 miliardi di dollari, sta oggi crescendo dell’1,5-2%. Se ci fossero un Presidente della Repubblica, un Governo attivo e un Parlamento dinamico, questo tasso di crescita si attesterebbe all’8-9 %. Non sto fornendo cifre casuali: nel triennio 2007-2009, nonostante tutte le crisi che il nostro paese stava attraversando, e fino al 2010, il Libano ha registrato un tasso di crescita tra il 7 e il 9%. Oggi la situazione è radicalmente cambiata, e ciò sta avendo gravi ripercussioni sul piano sociale e sulla vita delle persone. Il paese risulta così paralizzato, ed è per questo che l’elezione del Presidente della Repubblica si deve tenere il prima possibile».

La crisi siriana ha avuto conseguenze negative anche sul Libano, soprattutto se consideriamo il massiccio afflusso di profughi siriani. Come state gestendo questa crisi?
«La presenza dei rifugiati siriani in Libano è un fardello molto, molto pesante per il nostro Paese. Il problema è che questa emergenza non poteva essere evitata considerando la lunghezza della linea di confine tra Libano e Siria e la crisi siriana. Le misure adottate dal governo libanese negli ultimi cinque mesi hanno contribuito, seppur in minima parte, a ridurre il peso di questo fardello. Un fatto importante che ha contribuito ad alleggerire il flusso di profughi siriani verso il Libano è stata l’assenza di campi profughi creati ad-hoc, e dunque i rifugiati siriani si sono sparpagliati in Libano come semplici cittadini stranieri. Ciò, oltre ad aver diminuito l’afflusso di profughi siriani verso il Libano, ha evitato che si venisse a ricreare lo stesso problema che c’era stato con i campi profughi palestinesi molti anni fa. Nonostante la presenza di profughi siriani in Libano sia contenuta, ciò non significa che questa presenza debba persistere, soprattutto oggi che intere aree in cui si trovano i profughi siriani si stanno trasformando in aree a favore dell’opposizione siriana, mentre altre sono dalla parte del regime di Al-Asad. Sarebbe auspicabile che il governo cominci a chiedere a questi profughi di tornare nelle proprie città, soprattutto in quelle città che sono state liberate dall’opposizione siriana, come ad esempio Idlib. Non c’è timore che possa ripetersi quanto accaduto nel 1975 con i profughi palestinesi [anno d’inizio della guerra civile libanese tra i guerriglieri palestinesi e la resistenza cristiana, ndr]: all’epoca, i palestinesi avevano formato grandi gruppi all’interno dei campi profughi, e li avevano trasformati in campi d’addestramento. Per quanto riguarda i profughi siriani, non ci sono campi profughi e dunque non vi sono campi d’addestramento. Non dimentichiamo poi che all’epoca tutta la leadership dell’OLP palestinese si trovava in Libano, e dopo il settembre nero del 1970 tutti i leader della guerriglia palestinese si erano rifugiati in Libano, e ciò contribuì a far scoppiare la crisi e in seguito la guerra. Invece, la leadership della rivoluzione siriana non si trova in Libano e neanche potrebbe venire in Libano, in quanto nessuno lo accetterebbe. Tutti questi fattori fanno sì che non possa ripetersi l’errore che era stato commesso con i profughi palestinesi».

Quali sono le ripercussioni della partecipazione di Hezbollah alla guerra siriana?
«Le ripercussioni della partecipazione di Hezbollah alle battaglie in Siria sono molto gravi: le esplosioni e gli attentati che ci sono stati in Libano e il tentativo da parte dei ribelli siriani di attaccare alcuni villaggi libanesi sul confine sono soltanto alcuni esempi. Se, al posto di Hezbollah, l’esercito libanese fosse stato dispiegato lungo la linea di confine, questi incidenti non sarebbero accaduti. Bisogna poi considerare le ripercussioni del coinvolgimento di Hezbollah nel lungo periodo. Le principali ripercussioni ricadranno sulla comunità sciita libanese, in quanto la maggioranza del popolo siriano la vedrà come una comunità che, nel momento della crisi, l’ha pugnalata. In questo modo, Hezbollah ha trascinato gli sciiti libanesi e tutta la popolazione del Libano in un problema molto grave, e per cosa? Per difendere un regime feroce e spietato».

Vi è in Libano una reale minaccia dell’ISIS? Quali sono i timori della comunità cristiana?
«Va innanzitutto detto che l’ISIS è la peggiore organizzazione terroristica che la storia abbia mai conosciuto. Ma è proprio in questa ferocia e brutalità che si trova il loro punto debole, e proprio perché agiscono in questo modo non possono crescere e diffondersi come organizzazione. Oggi il Medio Oriente è in uno stato di caos e tensione, e ciò ha permesso a questa organizzazione di diffondersi, seppur in modo limitato. L’ISIS è un problema in Iraq, e lo è ancor di più in Siria. Ad oggi però non possiamo dire che l’ISIS si trova in Libano, e la cosa più importante a cui dobbiamo prestare attenzione oggi in Libano è evitare che singoli individui sposino l’ideologia dell’ISIS. Purtroppo, le azioni di Hezbollah stanno amplificando questo rischio anziché ridurlo. Per quanto riguarda la comunità cristiana, non ritengo vi sia una minaccia diretta proveniente dall’ISIS, anche perché a difendere la comunità cristiana in Libano vi sono l’esercito libanese e gli apparati di sicurezza nazionali, ed è ciò che sta accadendo nel nord-est del Libano, dove è stanziato l’esercito libanese, a ridosso del confine con la Siria. Non bisogna strumentalizzare la minaccia dell’ISIS per terrorizzare la popolazione e ottenerne un vantaggio politico».

Per concludere, quanto ritiene sia importante la presenza cristiana in Libano? E quale ruolo potrebbero svolgere i Paesi occidentali per tutelare questa presenza?
«La presenza dei cristiani libanesi è estremamente importante per l’intera regione, e questo lo sanno anche le comunità musulmane. La comunità cristiana libanese rappresenta per la regione un fattore di distinzione e di multi-culturalismo, che arricchisce il bagaglio culturale dell’intera regione. Il Libano è diverso da tutti i paesi arabi perché al suo interno vi è una comunità cristiana attiva ed efficace. In altri paesi arabi ci sono cristiani, ma non sono attivi come quelli libanesi. Per questo, gli altri paesi arabi guardano con ammirazione e orgoglio al Libano e alla sua vita culturale, sociale e politica. Cosa devono fare i governi occidentali per difendere questa comunità? Questi governi non hanno la reale intenzione di fare ciò, non esiste una volontà politica, altrimenti saprebbero come fare. I governi occidentali fanno calcoli freddi, basati su precisi interessi, e si muovono laddove hanno interessi diretti. Quando l’Iraq invase il Kuwait, tutti i governi accorsero in difesa del Kuwait, non perché amassero il Kuwait più di quanto amassero il Libano quando fu attaccato dalla Siria e da Israele, ma perché in Kuwait avevano più interessi. Purtroppo, i calcoli dei governi occidentali sono calcoli basati sugli interessi e non sui princìpi».

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