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L’eredità del Mullah Omar e il futuro dell’Afghanistan

La morte del leader dei talebani innesca interrogativi su almeno tre scenari: i negoziati di pace, la leadership del movimento e il ruolo dell'Isis

Per Lookout news

La notizia della morte del Mullah Omar, avvenuta secondo fonti governative afghane in Pakistan nell’aprile del 2013 in un ospedale di Karachi e confermata stamani dalla dirigenza talebana, mette la parola fine sulle speculazioni che da quindici anni a questa parte sono state fatte sul conto del leader talebano.

 Di concreto, dopo la centrifuga mediatica delle ultime ventiquattro ore ciò che resta sul terreno delle analisi rimanda fondamentalmente a due questioni: gli sviluppi dei colloqui di pace tra i talebani e il governo di Kabul, con un nuovo incontro in programma domani 31 luglio a Islamabad, e il futuro assetto degli insorti afghani adesso che il fantasma del loro leader sembra essere stato definitivamente scacciato, come dimostrano anche le prime conferme arrivate dalla Casa Bianca.

Lo sviluppo dei negoziati di pace
Il presidente afghano Ashraf Ghani, nel dare la notizia della morte del Mullah Omar, ha parlato di un momento di svolta per il futuro dei negoziati, lanciando un appello ai talebani affinché “colgano l’opportunità e partecipino uniti al processo di pace”. Rimettere in moto i colloqui ovviamente non sarà così semplice. Se alcuni analisti sostengono che la scomparsa del Mullah Omar potrebbe spianare la strada ai quei leader talebani che sono a favore del dialogo, molti altri ritengono invece che la fine della sua leggenda manderà in frantumi i fragili risultati ottenuti finora.

 Le tensioni che rendono così multiforme la galassia talebana, d’altronde, sono evidenti da tempo. Basta fare qualche passo indietro per rendersene conto. Il 7 luglio, l’autorità della delegazione presentatasi a Islamabad per confrontarsi con il governo di Kabul, non è stata infatti riconosciuta da diverse componenti talebane, compreso l’ufficio politico del movimento con base a Doha, in Qatar.

 I colloqui, inoltre, non mettono tutti d’accordo neanche a Kabul. All’interno del governo del presidente Ghani e del primo ministro Abdullah Abdullah, molte figure rilevanti non sono favorevoli alla prospettiva di riconoscere un ruolo politico ai talebani, al punto che la notizia della morte del Mullah Omar sarebbe stata fatta detonare ad hoc proprio alla vigilia del nuovo round dei negoziati con l’obiettivo di surriscaldare il clima delle trattative e allontanare le parti.

 In questo scenario così complesso, restano da decifrare le mosse degli altri attori principali coinvolti (chi formalmente, chi più o meno segretamente) nel processo di ricostruzione dello Stato afghano: Cina, Gran Bretagna, Norvegia, diversi gruppi di mediazione (in partita per tutelare gli interessi economici in gioco di molte società private) e, soprattutto, il vicino Pakistan. Da quando si è insediato alla guida dell’Afghanistan, il presidente Ghani ha puntato sulla collaborazione con i vertici militari e con i potenti servizi di intelligence di Islamabad, muovendosi verso una direzione diametralmente opposta rispetto a quella scelta dal suo predecessore Hamid Karzai. Una strategia che però non piace a diversi membri del suo stesso governo, i quali temono che un’eccessiva invasione di campo del governo di Islamabad nelle questioni interne afghane possa mettere in pericolo i loro interessi privati.

 

Il nodo della successione
L’altra questione calda riguarda la successione al Mullah Omar. Una questione su cui occorre fare chiarezza, a cominciare da un perché di fondo che non può essere tralasciato quando si parla dei talebani. I talebani non rappresentano infatti un movimento unito nel seguire una vera e propria leadership. Rispetto ad Al Qaeda, non rispondono a una struttura di comando verticistica e “aziendale” come quella eretta da Osama Bin Laden, bensì a logiche locali dettate dagli interessi dei signori della guerra e dai padroni dei traffici di oppio, il “petrolio dell’Afghanistan” in nome del quale sciiti (in netta minoranza in Afghanistan e Pakistan) e sunniti hanno finora evitato lo scontro per favorire la crescita delle rotte del contrabbando: verso la Turchia e l’Occidente, passando per l’Iran, e verso i mercati in espansione dell’Asia sud-orientale.

 Non vi è pertanto alcun meccanismo collaudato che porterà i talebani a decidere chi sostituirà il Mullah Omar. E gli incroci di notizie delle ultime ore, che parlano di una sfida a due tra il figlio maggiore del Mullah Omar, il 26enne Mullah Mohammad Yaqoub, e il numero due dei talebani afghani, il Mullah Akhtar Mansoor, vanno presi con le pinze.

ISIS in Afghanistan
Sul disorientamento che la notizia della morte del Mullah Omar avrebbe creato soprattutto nelle periferie delle regioni controllate dai talebani in Afghanistan, potrebbe avere gioco facile lo Stato Islamico. La penetrazione di ISIS in Afghanistan, incarnata dal gruppo Stato Islamico di Khorasan (l’area geografica che va dall’Afghanistan fino all’India) potrebbe spingersi in profondità nel Paese raccogliendo adesioni e nuove leve.

 Forse va interpretato proprio nel tentativo di contrastare la capacità attrattiva di ISIS il tentativo di “tenere in vita” il Mullah Omar negli ultimi anni: dalla recente pubblicazione di una sua biografia, in cui è stata rimarcata la sua leadership nell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, al messaggio del settembre del 2014 attraverso cui il leader di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri aveva rinnovato la sua fedeltà al leader talebano nell’annunciare la formazione di una nuova filiale dell’organizzazione in Asia meridionale.

 O forse, più probabilmente, la penetrazione di ISIS in Afghanistan è solo un mito metropolitano fatto circolare ad arte dai media occidentali, così come è stato fatto con la leggenda del Mullah Omar. Lo Stato Islamico è un fenomeno nato in Iraq e che si sta nutrendo della contrapposizione tra sciiti e sunniti. Una contrapposizione che i talebani hanno invece messo da parte, in nome dell’oppio e della guerra totale all’invasore straniero.

 

 

 

 

 

 

 

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Rocco Bellantone