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ANSA/ Victor Moriyama / Greenpeace
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L'Amazzonia brucia, da un pezzo

Anche il G7 ha lanciato l'allarme ed attaccato Bolsonaro. Ma l'emergenza è vecchia, di 30 anni

L'Amazzonia brucia, e finalmente il mondo se ne accorge. Le copertine dei settimanali, le homepage dei siti, le aperture dei telegiornali grondano di foto del polmone della Terra che arde. Fiamme terribili.
Inizialmente le foto erano fasulle, ma che importa. E' l'impatto che conta, la presa di coscienza di milioni di persone che su twitter rilanciano l'hashtag #prayforamazonia.
Mai si era vista una simile mobilitazione. Le sorti delle tribù indios, di cui finora è interessato poco e niente a nessuno, hanno preso improvvisamente posto a sedere al tavolo dei grandi nel G7 di Biarritz.
Il presidente francese Emmanuel Macron, in un anelito di spettacolarizzazione pro domo sua, ha lanciato un accorato e drammatico appello, cercando di imitare Leonardo Di Caprio, che però l'ha fatto impallidire, mettendo di tasca sua 5 milioni di dollari sul tavolo per salvare l'Amazzonia.
I leader del pianeta si sono ritrovati uniti, per una volta, senza bisogno di negoziazioni estenuanti. Un unico nemico li ha raggrumati tutti sotto un'improvvisa (e improvvisata) bandiera verde.
E quel nemico non è il fuoco che sta divorando la foresta pluviale e che può essere visto dallo Spazio, come mostrano le foto (vere) scattate dal nostro Luca Parmitano, ma ha un nome e un cognome: Jair Bolsonaro, il nuovo presidente del Brasile.
L'uomo è antipatico di natura, sgradevole nelle esternazione, di destra per appartenenza politica. Praticamente incarna il nemico perfetto, ed ecco che i leader mondiali, improvvisamente diventati pasdaran dell'ambientalismo duro e puro, lo usano come bersaglio unico delle loro invettive, scaricandogli addosso le colpe per le fiamme in Amazzonia.
In realtà, purtroppo l'Amazzonia brucia da anni. Anzi, da decenni. Nell'assordante silenzio del mondo. Anche di quelli che ora si stracciano le vesti.
Era settembre del 1989, quando TIME dedicò la copertina alle fiamme che stavano distruggendo la foresta pluviale.

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Nella lunga inchiesta del settimanale si puntava il dito contro i contadini brasiliani, che davano fuoco ai campi per pulirli dopo il raccolto annuale. Mai accendere un fuoco in una foresta.
L'unica differenza rispetto a trenta anni fa, è che allora al posto di Di Caprio c'era Sting, ma nessuno lo ascoltava. Chissà, forse era meno bello e più sofisticato dell'oscar hollywoodiano.

Gli attivisti verdi oggi sostengono che da quando è stato eletto Bolsonaro gli incendi in Amazzonia sono aumentati.
Ma dimenticano che a luglio di quest'anno si è registrato il record di alte temperature in tutto il pianeta, tanto che ci sono stati incendi anche nell'Artico, e il fuoco è divampato persino in Alaska e in Siberia, causando danni enormi all'ecosistema del pianeta.
Dettagli messi agevolmente sotto il tappeto, quando c'è da attaccare il nemico Bolsonaro.

Il dramma dell'Amazzonia è serio e grave e non dovrebbe essere strumentalizzato in chiave politica. Negli ultimi 50 anni gli agricoltori e i latifondisti con ampi ranch in Amazzonia hanno fiutato un nuovo business: il nuovo oro si chiama soia e carne di manzo. Per fare spazio a pascoli e campi da coltivare, non ci hanno pensato due volte a distruggere un patrimonio di ettari di alberi e ad appiccare fuoco alla foresta. Lo fanno da 50 anni. Lo facevano anche quando al governo non c'era Bolsonaro, ma Lula e poi la sua delfina, Dilma Rousseff.
Tra il 1964 e il 1985 i contadini dell'Amazzonia hanno sostenuto la dittatura militare brasiliana, con la promessa che gli attivisti per i diritti degli indios e della foresta pluviale non gli avrebbero creato problemi. La deforestazione continuò tranquillamente (e nel silenzio del mondo) anche con l'avvento della democrazia, fino a toccare picchi drammatici dal Duemila in poi.
Tra il 2003 e il 2006 l'ex presidente Lula aumentò le multe per i deforestatori. Ma, di fatto, per l'Amazzonia cambiò poco e niente. Per qualche anno gli incendi sembrarono sotto controllo, ma con l'arrivo al potere di Dilma Rousseff, più vicina alla classe rurale del Paese e più sensibile alle richieste dei contadini, la foresta pluviale tornò ad ardere. Contemporaneamente aumentava la richiesta mondiale di soia e carne di manzo, soprattutto dalla Cina. Come poter resistere a un mercato così ghiotto?
Con 200 seggi in Parlamento, l'unione dei latifondisti orientava le decisioni della Rousseff, tanto che per tenerli buoni Dilma decise di essere meno rigorosa nell'applicare il cosiddetto “codice della Foresta”, principale strumento legale contro la deforestazione selvaggia. Per l'Amazzonia fu un disastro. Prima di allora gli incendi erano diminuiti, ma dal 2012 in poi il tasso di deforestazione (e distruzione) della foresta amazzonica cresce al ritmo del 75%.
I 7 big del mondo (Francia, Canada, Italia, Regno Unito, Germania, Giappone e Stati Uniti) lanciano il loro grido di dolore dal summit di Biarritz, e staccano un assegno di 20 milioni di dollari per la riforestazione amazzonica.
Peccato che, simultaneamente, si accordano anche per aumentare l'importazione di carne bovina dai Paesi dell'area Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) verso l'Europa. Più carne significa più pascoli. L'Amazzonia trema. Siamo così sicuri che il cattivo sia solo Bolsonaro?

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Oriana Allegri