Israele: il voto normale di un Paese assediato
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Israele: il voto normale di un Paese assediato

Hamas e la sicurezza non sono temi trattati nella campagna elettorale. Vincerà chi darà risposte alla crisi economica. E ai prezzi folli delle case

Da Tel Aviv - Una Shanghai in sedicesimo, Tel Aviv, gru come funghi, grattacieli che spuntano ovunque, nuove down town che ti senti a Manhattan e ti spingono a sberle nel futuro. Succede in Israele, il Paese dall’avvenire più incerto al mondo. Pare una roba da matti, questa corsa in avanti. Una smània da ottimisti sconsiderati. Di gigantismi edilizi alla Donald Trump con assicurazione quasi a zero. Che cosa ti affanni a costruire, ad allargare, a modernizzare, se puoi finire a gambe all’aria sotto l’urto di 300 milioni di arabi che ti assediano e ti vogliono morto? Si voterà il 17 marzo, qui. Unica democrazia del Medio Oriente. Volete sapere che cosa capiterà? Niente. O meglio, di cotte e di crude, ne possono capitare, ma di clamoroso, niente.


 «Di gravi e lunghe storie è cementata la nazione ebraica. Con in più un sentimento: la paura. E cercate di non equivocare, voi in Europa, la paura d’Israele è un sentimento nobile, che si accompagna al coraggio». Nella sua villetta a nord di Tel Aviv, davanti a una torta alla crema, e a fragoloni sorprendentemente dolci, Rafi Gamzou sorride. Ambasciatore a Taiwan, ora è il direttore generale per gli affari culturali e scientifici del ministero degli Esteri: «La nostra politica estera è politica di sicurezza. A volerla dire col suo nome, bisognerebbe chiamarla politica per sconfiggere la paura di scomparire. E la paura più grande, in Israele, è la bomba atomica iraniana».
In marzo, gli ultimi sondaggi di Time of Israel dicevano questo: il 72 per cento della popolazione (che ancora in gennaio era «solo» il 64) non aveva alcuna fiducia nella capacità di Barack Obama di aiutare a fermare l’ordigno hayatollah. Si fidava solo di se stessa e dei propri dirigenti. Lo stesso sondaggio rivelava, a proposito delle prossime elezioni, che l’argomento di gran lunga più importante era la situazione economica interna (48 per cento), con la relazione israelo-palestinese a distanza abissale (19 per cento), cui seguiva l’educazione (14 per cento), mentre la minaccia iraniana contava solo per il 10 per cento. Da traveggole. Ballano sul Titanic, questi israeliani? L’atomica in testa, Hamas a Gaza, Hezbollah a nord, i salafiti a un metro, e l’Isis tutt’intorno, e il Qatar, e gli sciiti, e i sauditi ipersunniti, e loro? Si preoccupano delle tariffe dei cellulari troppo alte, o per i prezzi delle case alle stelle.

Le elezioni in Israele sembrano fatte apposta per consolare gli italiani. 120 seggi contendibili alla Knesset. Solo 120, in effetti. Ma una pletora di partiti maggiori e minori da spaventare Ciriaco De Mita. E un sistema di voto proporzionale puro. E alleanze stabilite solo dopo. Il Likud di Bibi Netanyahu: 24 per cento all’ultimo sondaggio. Il suo ex ministro dell’Economia, Naftali Bennet, che ha fondato HaBayt Ha Yehudi. E il partito Yisrael Beiteinu, che stava con Bibi. Finché il suo leader, AvigdorLieberman, si è alleato col nuovo partito Kulanu, fondato da Moshe Kalon il 27 novembre scorso. Ma adesso lo dirige Michael Oren. Staranno con Nethanyau, probabilmente. Dopo, però. Forse. Trattando. Come l’ex ministro della Finanza, Yair Lapid, che odia Netanyahu da quando lo licenziò, eppure, se non con lui, non saprebbe con chi stare.
Questo nel centro-destra. Nel centro-sinistra, il Labour party di Isaac Herzog, 22 per cento all’ultimo sondaggio. Più Hatnuah, il partito dell’ex ministro della Giustizia di Nethanyau, Tzipi Livni. Più Meretz, più il partito arabo-israeliano. Difficile coalizione. Erano tre, prima, i partiti arabo-israeliani. Compreso l’ex partito comunista. E minuscoli. Finché Lieberman, per cancellarli, ebbe la geniale idea di alzare la soglia di accesso alla Knesset al 3,25 per cento. Si misero insieme, i rottamandi, e i sondaggi li danno adesso intorno al 10. Se vincerà Nethanyau, come molti pronosticano, potrebbero perfino diventare il primo partito dell’opposizione. Nell’Israele cosiddetta dell’apartheid.
Giri per Gerusalemme, per Tel Aviv, vai a Carmel, al grande mercato e a un occhio poco esperto come il mio le elezioni israeliane sembrano altrove. Sulla luna. Provi a capirci, allora. E scopri questo. Che sulla «paura», vale a dire sul sentimento capace di aggiungere identità al popolo ebraico, del tutto asettiche le elezioni non potranno essere di certo. È innegabile. Perché c’è modo e modo, ovviamente, c’è persona e persona, e leader e leader. E il modo di Bibi è senz’altro diverso da quello di Herzog. Ci mancherebbe, e figurarsi le implicazioni. E la loro importanza. Ma al fondo, poi, e dico proprio al fondo, per gli israeliani che vanno alle urne la cosa sembrava contare così così. C’è attenzione, passione mica tanta. Chiedi perché al professor Gamzou. E la risposta è netta: «Perché non esistono lacerazioni gravi tra i partiti, riguardo alla sicurezza». Il falco Bibi stava andando a Washington quel giorno. E avrebbe detto ciò che oggi sappiamo.


Il suo nemico David Grossman l’avrebbe commentato così: «Io Bibi non lo voto, ma quel che ha detto sulla sicurezza d’Israele è giusto. Pensateci». Il laburista Herzog aveva appena pronunciato queste parole: «Sulla bomba iraniana la penso come Bibi. E con Hamas non si tratta, riconosca Israele, poi se ne parla». Distinguendosi soltanto, riguardo all’atomica religiosa, sul termine «esiziale», cui avrebbe preferito un più cauto «micidiale». Bennet, uguale e di più. Lapid, lo stesso. Lieberman, più radicalmente. La Livni, poiché il carattere è quello che è, appena più sfumata. Ecco, al popolo d’Israele questo basta, lì non transige. E allora, le case, e allora il prezzo dei telefonini.

Hagai Meyer l’avevo già incontrato nel 2009. Era il capo squadriglia degli F16 con la stella, nell’operazione «Piombo fuso». Sempre su Gaza.  Sempre per via dei missili. Solo Kassam, allora, sparati da Hamas sulla popolazione civile di Ashdod piuttosto che di Be’er Sheva. Sempre con la reazione di Israele. Difensiva, come quest’anno. E sempre esagerata, come quest’anno. E denunciata sempre, umanimissimamente, immancabilmente, in Europa e non solo, da chi non sa che cosa voglia dire difendersi. L’ho incontrato di nuovo l’altra sera, parla italiano. Insieme per quattro ore, e le elezioni sembravano di nuovo altrove. Come a Carmel. Nemmeno una parola. Fa il pilota per El-Al, adesso. Due volte alla settimana, volontariamente, torna sugli F 16. Da riservista: «Fino a 47 anni potrò farlo, da voi si potrebbe fino a 52». Che vinca Herzog, o Nethanyau, Hagai, come dire, si tiene in forma contro la paura. Sua e dei suoi amici. Ha due figli. La piccola stava andando a una festa. Il grande, 23 anni, forse 24, doveva trovarsi alle tre del mattino al suo posto di comando di Palmachim, come ufficiale responsabile dei droni. Droni armati? Silenzio. E per chi voti? Io? Per Israele.


Sedot Neghev è il comune più vicino alla striscia di Gaza, la tocchi allungando la mano. Rafi Babian, 60 anni, è il responsabile militare per la sicurezza. Ti porta alla striscia, mostra le gallerie sotteranee di Hamas, confessa qualche telefonata con un amico palestinese che sta a Gaza e non può più vedere. Ha molto da fare. Non un cenno alle elezioni. Sollecitato, dice: «Credo siano abbastanza importanti». In tre mesi il suo kibbutz ha rimesso a nuovo le coltivazioni devastate dai carri armati. Si rinnovano i campi fioriti nel deserto del Negev, come a Tel Aviv tirano su grattacieli.
Qualcuno ha definito buffa la campagna elettorale. Spot leggeri, pieni di battute, giochi di parole. «Avete chiesto una baby-sitter? Avete avuto un Bibi-sitter» recita Netanyahu. Gli risponde Herzog: «Mentre Bibi lavora al suo numero comico, noi stiamo vivendo una tragedia». C’è un malato, Israele, sottoposto a terapia: OsloA, OsloB, accordi di Hebron, accordi di Wye: «Non hanno funzionato, è arrivata l’ora di Bennet». Cercano di farsi male, i politici. Poi se il popolo è vivo, come sembra  vivo qui, possono perfino permettersi il lusso di non massacrarsi.

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