Guerra al terrore: ma è giusto pagare i riscatti?
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Guerra al terrore: ma è giusto pagare i riscatti?

Il rapimento delle due ragazze italiane in Siria e la decapitazione del giornalista Usa riaprono la polemica sui soldi versati agli estremisti in cambio della liberazione degli ostaggi. 
Un immenso flusso di denaro. Che va bloccato

Vantandosi in una recente lettera con il collega leader di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim), Nasser al Wuhayshi, numero 2 del movimento islamista nella penisola
arabica (Aqap), gongolava per il fatto che «la maggior parte dei costi della battaglia erano pagati dai bottini: quasi la metà dei quali proveniente da riscatti. I rapimenti costituiscono un facile bottino, un affare vantaggioso e un tesoro prezioso». Per quanto l’affermazione di Wuhayshi possa apparire vanagloriosa, mette in evidenza le ragioni per cui il pagamento dei riscatti è qualcosa che i terroristi e i gruppi estremisti considerano un’attività fondamentale per la continuazione delle loro azioni.

Le organizzazioni terroristiche e gli insorti hanno bisogno di soldi. Operando in ambienti ostili, dove rifornimenti e fondi scarseggiano, il denaro è necessario per comprare cibo, vestiario e armi, per pagare le spese di trasporto e i combattenti, e per assicurarsi il transito in aree governate da signori della guerra e capi tribali che altrimenti potrebbero denunciare le attività sospette alle autorità. Le attività criminali come contrabbando o estorsioni consentono di incassare soltanto parte dei fondi, ma richiedono forti investimenti e un grande impiego di uomini. Mentre fare soldi con i rapimenti è decisamente più facile e veloce.

I gruppi armati sono sempre più consapevoli degli ingenti profitti che è possibile realizzare sequestrando persone di paesi noti per correre in soccorso dei propri cittadini, e puntano individui provenienti da stati più disposti a pagare per la loro liberazione. È un’operazione puramente economica, nella quale l’ideologia c’entra poco. I soldi ricevuti sono indispensabili per le attività terroristiche e si può tracciare la parabola delle varie formazioni a seconda della loro capacità di assicurarsi fonti di finanziamento. Così mentre il nodo attorno al nucleo di al Qaeda si è stretto e l’attività della rete terroristica è diminuita, quella di gruppi come al Qaeda nel Maghreb
islamico, al Qaeda nella Penisola arabica, o Isis prosperano grazie alla loro abilità nell’ottenere denaro dalle attività criminali.

La situazione per coloro che sono prigionieri in Siria è sfortunatamente ancora più complicata, perché non sono chiare le motivazioni per cui i miliziani
dell’Isis trattengono gli ostaggi. Stanno chiedendo soldi per rimetterli in libertà o hanno soltanto intenzione di usarli come scudi contro attacchi esterni? Ciò che è
chiaro, tuttavia, è che gli ostaggi resteranno pedine dei gruppi che cercano fondi e attenzione. Il fatto che famiglie, aziende e governi alla fine decidano di pagare
è solo un modo per perpetuare questo circolo vizioso, aumentando il numero di gruppi che guardano al rapimento come un’attività lucrosa.
Per interromperlo è necessario che tutti si rifiutino di pagare. È una decisione difficile da mettere in pratica, e anche difficile da fare accettare a famiglie e opinione
pubblica. Ma è l’unico modo per chiudere la «fabbrica dei sequestri».

*Esperto di sicurezza e terrorismo al Royal united services institute (Rusi) di Londra

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Raffello Pantucci*