Popoli in fuga: Iraq
AHMAD AL-RUBAYE/AFP/Getty Images
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Popoli in fuga: Iraq

La pulizia etnica dei cristiani, colpevoli di modernità

di Padre Bernardo Cervellera*

Una «catastrofe umanitaria» e «un genocidio»: così Louis Sako, patriarca caldeo di Baghdad, descrive quanto succede in questi giorni nel nord-est dell’Iraq, dove almeno 100 mila cristiani sono in fuga braccati dalle minacce di morte e dalle bombe dell’Esercito islamico (Ei) che il mese scorso ha inaugurato un Califfato e che ha lasciato ai cristiani tre possibilità: convertirsi all’Islam; vivere come sottomessi, pagando la jiziya, una tassa di 450 dollari al mese; fuggire lasciando tutti i loro beni allo stato islamico. Oltre queste tre scelte vi è solo «la spada».

In preda all’orrore e al panico migliaia di famiglie, con anziani, donne gestanti e figli piccoli, hanno abbandonato i loro villaggi e le loro case, con niente in mano se non i vestiti che avevano addosso. Chi ha cercato di fuggire con auto e qualche bene è stato fermato e costretto a lasciare tutto in mano dei miliziani che controllavano ogni uscita e ad abbandonare i villaggi a piedi. Valigie, soldi, oggetti di valore, tutto è stato sequestrato in nome dell’Islam. Alle bambine sono stati sequestrati perfino dei piccoli orecchini e gli spiccioli delle loro paghette. Alcune centinaia di famiglie sono giunte a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Altre, insieme a fuggitivi di altre etnie, sono rifugiate nelle mon- tagne, senza ripari, acqua o cibo. Nella torrida estate irachena, quando la temperatura raggiunge anche 50 gradi, varie decine di bambini sono morti per disidratazione.

La prima città a cadere nelle mani degli estremisti sunniti (provenienti dalla Siria) è stata Mosul, seguita poi da diverse altre città del nord, nella piana di Ninive, come Sinjar, Telkef, Batnaya,Telleskuf e perfino Qaraqosh, una città a maggioranza cristiana, dove i fedeli erano presenti da quasi 2.000 anni. Per dare maggior forza alle loro minacce, i miliziani dell’Ei hanno segnato le case dei cristiani con una N (nazareni, un vecchio nome dispregiaivo dei cristiani); hanno diffuso video e foto di esecuzioni (fra cui la decapitazione); hanno sequestrato chiese ed episcopi; bruciato libri antichi e nuovi; occupato monasteri; distrutto santuari (come quello del profeta Giona, a Mosul, venerato da cristiani e islamici) e il mausoleo di san Giorgio.

In effetti, la furia dell’Ei prende di mira tutto ciò che non è Islam fondamentalista. Per questo, oltre ai cristiani, sono in fuga anche migliaia di yazidi, gruppo religioso con venature islamiche e zoroastriane, oltre agli «empi» sciiti. Ma è soprattutto contro i cristiani che gli islamisti hanno deciso una lotta senza quartiere volendoli eliminare dal Medio Oriente perché lo «inquinano» con la loro modernità, la loro scienza, i loro contatti internazionali, il loro fungere da cerniera fra Oriente e Occidente. Per questo l’impegno dell’Ei somiglia a una «pulizia etnico-religiosa» tale da sfilacciare il tessuto intercomunitario cresciuto in Iraq nel corso di millenni, per dar luogo a nuove frontiere, con stati confessionali. Progetto che vede d’accordo l’Arabia Saudita, timorosa delle rivolte sciite nella penisola (ancora più inquietanti dopo le primavere arabe) e che Israele auspica fin dai tempi della sua fondazione, per indebolire gli stati arabi.

L’invasione dell’Esercito islamico nel centro e nel nord-est dell’Iraq rischia di affrettare la divisione del paese in tre zone di influenza (o in tre stati): quella curda, al nord; quella sciita al sud; quella sunnita al centro. E ora che i miliziani fondamentalisti hanno conquistato i pozzi di petrolio di Mosul e la diga per garantirsi acqua ed energia elettrica, si può dire che la divisione (di territorio, di risorse, di popoli) è compiuta con l’avallo del governo regionale del Kurdistan e di quello dello sciita Al Maliki. Questo spiega come mai un migliaio di miliziani abbiano potuto conquistare in pochi giorni enormi fette di territorio, davanti a un esercito iracheno che fuggiva senza combattere. Le uniche voci che difendono l’unità dell’Iraq sono quelle delle autorità religiose cristiane e musulmane.

Il patriarca Sako continua a sottolineare che «occorre che tutti i componenti della nazione irachena e l’assemblea internazionale possano trovarsi insieme a riflettere per individuare una soluzione duratura che rispetti ciascuno e salvi il nostro paese». Il grande ayatollah Al Sistani, massima autorità sciita, lancia continui appelli affinché tutta la popolazione irachena affronti insieme «il grande pericolo» e critica i politici che restano attaccati alle loro poltrone (con chiaro riferimento al premier uscente Nuri Al Maliki). Anche papa Francesco chiede, con decine di interventi, che vi sia dialogo e pace fra tutti i componenti della società irachena. Le vittorie dell’Ei sono dovute anche ai loro armamenti: i miliziani sono ben equipaggiati, con armi modernissime, ben addestrati. Per tutto questo bisogna dire grazie a Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita e Qatar, che in questi anni hanno foraggiato con armi e denaro la cosiddetta «resistenza» al governo siriano, facendo crescere un gruppo che ormai, più di Al Qaeda, minaccia non solo il Medio Oriente, ma anche l’Occidente e la pace mondiale.

* direttore del sito d’informazione Asianews , religioso del Pime

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