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Iran-Arabia Saudita, il conflitto che apre l'anno più difficile del Medio Oriente

Rischio escalation: alle soluzioni politiche si sostituiscono le provocazioni. Lo scontro in puzzle sempre più complicato

Il nuovo anno inizia con un innalzamento vertiginoso delle tensioni in Europa e in Medio Oriente. Se in Europa la tensione è di tipo sociale - preoccupante la serie di attentati, aggressioni fisiche, incendi dei simboli del Natale e della cristianità verificatesi soprattutto in Nord Europa (Francia, Belgio, Germania) - in Medio Oriente invece l’escalation politico-militare si fa sempre più feroce e compromette direttamente i vertici dei più importanti paesi della regione.

Tali tensioni, infatti, non riguardano più solo Turchia e Russia, già protagoniste di un episodio significativo della guerra (l’abbattimento di un caccia Su-24 russo da parte di un jet turco), ma investono direttamente Iran e Arabia Saudita, coinvolte nel conflitto siro-iracheno quanto e più di ogni altro paese mediorientale.

Le ambizioni di Teheran
Già, perché se da una parte l’offensiva dello Stato Islamico è lungi dall’arrestarsi (vedi l’intensificarsi delle azioni di guerriglia in Libia e la resistenza a Ramadi che, nonostante gli annunci, non è ancora stata liberata del tutto), dall’altra i suoi avversari non si chiamano più Assad della Siria ed esercito iracheno.

I nemici dello Stato Islamico sono oggi gli stessi dell’Arabia Saudita e della Turchia: ovvero gli sciiti di Teheran, che da tempo ostacolano gli interessi politici ed economici dei paesi sunniti poiché mirano a dominare l’intera regione.

Da quando Teheran ha ottenuto il via libera degli Stati Uniti all’incremento del nucleare a scopi pacifici - mossa che prelude a un allentamento delle sanzioni economiche internazionali cui il paese è soggetto da decenni - la Repubblica Islamica ha aumentato il proprio ruolo nel conflitto, allo scopo apparente di difendere i governi sciiti di Iraq e Siria dallo Stato Islamico, ma con l’obiettivo più alto di gestirli e orientarne le scelte.

I timori sauditi e di Ankara
Questa strategia ha allarmato il regno saudita non meno della repubblica turca, che mirano entrambe ad accrescere la propria influenza su Siria e Iraq, come e più dell’Iran. Tale ingerenza sta dunque portando a uno scontro militare sempre più diretto nell’area, con l’utilizzo crescente di armi e uomini sul campo che provengono o sono addestrati apertamente da questi paesi.

I recenti sviluppi della guerra
La sequenza delle ultime settimane è di quelle che preconizzano i peggiori scenari. L’Iran, che dalla sua parte ha al proprio fianco la Russia per tutelare i propri interessi nel Mediterraneo, gli Hezbollah libanesi per vocazione e ciò che resta degli eserciti iracheno e siriano per cause di forza maggiore, ha creato con loro un centro di coordinamento a Baghdad nella speranza di influenzare le decisioni dei propri alleati.

L’Arabia Saudita nel mese di dicembre ha risposto coalizzando attorno a sé un’alleanza islamica cosiddetta “anti-terrorismo”, di cui fanno parte 34 paesi sunniti e che si muove in chiave chiaramente anti-sciita.

Dopo la mossa di Riad, complice l’esecuzione di un imam sciita gradito agli iraniani, Teheran ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita e ha lasciato che l’ambasciata saudita nella capitale fosse data alle fiamme.

A questa mossa hanno risposto le altre potenze sunnite come Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi, richiamando i rispettivi ambasciatori. Teheran ha quindi vietato il pellegrinaggio minore alla Mecca per i suoi cittadini, mentre Riad il 7 gennaio è stata accusata di aver bombardato l’ambasciata iraniana in Yemen (dato non confermato), paese dove peraltro è in corso un’appendice della guerra siro-irachena che vede i ribelli sciiti opporsi al potere centrale sunnita.

Il Bahrein focolaio di tensioni
Anche il Bahrein ha richiamato i propri ambasciatori. Tuttavia, quest’ultimo rappresenta un caso a parte nel conflitto. Con quattro milioni di anime, infatti, è l’unico paese sotto influenza saudita a maggioranza sciita (65% della popolazione) ed è considerato da Teheran il “punto debole” di Riad. La provincia saudita di Al Qatif, prospiciente il Bahrein, è infatti il più grande hub petrolifero al mondo e proprio qui la maggioranza della popolazione è sciita.

Infiltrazioni iraniane
Per tale motivo, da anni sono in corso tentativi d’infiltrazione iraniana nell’isola, al fine di istigare una ribellione nel cuore del potere economico sunnita: sequestri di depositi o di navi cariche di armi e materiale per fabbricare bombe sono in netta crescita negli ultimi tempi. Se i sauditi dovessero subire una ribellione interna, sarebbe un duro colpo per la stabilità generale del paese. Tuttavia, a controllare l’ordine pubblico in Bahrein sono le truppe saudite, visto che la monarchia di Manama non dispone di un proprio esercito.

Geo-economia
A tutto ciò si aggiungano le grandi manovre geo-economiche che, ad esempio, hanno portato l’Arabia Saudita a tagliare il prezzo del greggio destinato all’Europa e al bacino del Mediterraneo per il 2016. Un “maxi sconto” sul già basso prezzo del petrolio, che anticipa il minaccioso ritorno sul mercato di Teheran e che punta a indebolire la Repubblica Islamica sottraendole i potenziali compratori post-sanzioni. Per contro, Teheran ha bloccato gli scambi commerciali con Riad.

La guerra dei Trent’anni
Insomma, la guerra in corso in Siria e Iraq è sì una guerra scatenata dallo Stato Islamico ma solo in minima parte è una guerra per l’imposizione del Califfato nella regione. Piuttosto, si tratta dello scontro finale tra potenze sunnite e sciite per il futuro controllo geopolitico dell’intero Medio Oriente.

Islam politico
Una guerra dei Trent’anni mediorientale, insomma, che se certamente non può essere liquidata come "guerra di religione", pone però anche il problema di un Islam politico dove i leader di ciascun paese per parte propria dimostrano di credere in un modello istituzionale che fonde potere temporale e spirituale.

Un convincimento così radicato che difficilmente potrà essere estirpato nell’arco di una generazione. Né possiamo illuderci che “esportare la democrazia” sul modello americano, come teorizzato sinora dall’intellighenzia occidentale, possa avere una qualche speranza di successo.

Aver sottovalutato questa realtà ed essersi concentrati sullo spauracchio dell’esercito del Califfo è un fatto grave e foriero di nuovi focolai di crisi, che pone le Nazioni Unite, la Casa Bianca e le potenze europee in una condizione di sudditanza e impotenza come mai prima d’ora era accaduto. Buon 2016.

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Luciano Tirinnanzi