Il successo di Orban, Visegrad e gli errori dell'Europa
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Il successo di Orban, Visegrad e gli errori dell'Europa

La riconferma del Primo Ministro ungherese viene da lontano, mentre l'Ue resta a guardare

L’Europa assiste alla terza riconferma di Viktor Orbán, e inizia a farsi domande inquietanti. Che siano anche tardive è scontato, ma non per questo esse sono meno vere.

Dove, e quando, Bruxelles ha commesso gli errori che portano oggi Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, cioè il Gruppo di Visegrád, agli onori (e disonori) della cronaca politica come principale minaccia della disgregazione europea su spinte sovraniste?

Il grande equivoco polacco

Il peccato originale fu l’ottimismo miope dell’UE, cioè il mantra dell’allargamento a Est con perno Varsavia che risale ai tempi 2004-2007. E’ bastato che alla guida del Paese giungesse una forza latente nella società polacca, quella di Jaroslaw Kaczynski (leader del partito di conservatore e clericale “Diritto e Giustizia”), perché il disegno di una Polonia europeista si arenasse.

Mentre Bruxelles continua a sostenere con ingenti fondi comunitari Varsavia (almeno 229 miliardi di euro fino al 2020), quest’ultima si guarda bene dall’aderire all’Euro.

Quando finalmente la Commissione si è mossa, sanzionando nel dicembre scorso la Polonia con l’attivazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona per il mancato rispetto dello stato di diritto, era ormai troppo tardi.

E’ vero che la società polacca ha anticorpi forti e combattivi, ma la deriva sovranista ha ormai preso quota, grazie anche al gioco di sponda con l’altra sindrome di rigetto europeo, quel Regno Unito votato alla Brexit e all’asse, anche militare, Londra-Varsavia in funzione antirussa.

Indubbiamente quella polacca è l’economia più forte del sodalizio di Visegrád: un’area dove la parola recessione è non la capisce nessuno e dove i governi hanno quindi gioco facile a promuovere una narrazione propagandista basata sulla difesa del primato nazionale.

Queste politiche sono valse tanto alla Polonia quanto all’Ungheria di Orbán e alla Repubblica Ceca il deferimento alla Corte Europea di Giustizia per il mancato ricollocamento dei migranti; ma quello che per la maggioranza dell’opinione pubblica europea è una vergogna umanitaria, per Visegrád è un vanto.

Non aver capito, come ha fatto la Commissione UE, questo décalage tra i principi universali e la loro reale percezione tra il Danubio e la Vistola è all’origine del voto anti europeista che rende il gruppo di Visegrád coeso e seducente per i paesi vicini.

L’eccesso verticista di Bruxelles

Tra questi ultimi, spicca l’Austria, che ha appena virato a destra con la vittoria dei nero-blu del neo Cancelliere Sebastian Kurz, e alla quale toccherà nel secondo semestre di quest’anno la Presidenza dei Consiglio dei Ministri UE. Cioè la cabina di regia, tra le altre cose, della riforma di Dublino III, destinata a scontentare i progressisti come i sovranisti. I primi obietteranno, con ampie ragioni, che senza mutare il pilastro di Dublino III (e cioè il vincolo al Paese di prima accoglienza) qualsiasi riforma è inutile e il peso dell’emergenza affliggerà sempre, e solo, Italia e Grecia.

I secondi perché la logica della solidarietà tra Stati verrà ribadita con piglio verticista e tecnocratico, senza voler ascoltare le paure di chi appunto i migranti non li vuole accogliere, come il quartetto di Visegrád.

La mancata risposta culturale a queste paure è il principale motore propagandistico per leader come Orban, come Kaczynski e come il Ceco Andrej Babiš.

I limiti interni degli Stati nazionali

Non bisogna mai dimenticare come l’antifascismo nell’ex blocco sovietico fosse, a conti fatti, imposto per decreto. In quest’area l’Armata Rossa ha eliminato le destre nazionali spesso alleate coi nazisti, ma quando le redini del comando sono passare dai militari ai burocrati del regime comunista, è mancato il momento dell’elaborazione di coscienza.

L’ortodossia ideologica, insomma, si è fatta ubbidire con gli argomenti del potere invece che con quelli della ragione. Il risultato, oltre mezzo secolo dopo, è l’attuale recrudescenza di spinte nazionaliste e xenofobe mai affrontate davvero (si guardi anche ai Länder orientali tedeschi), ma nascoste sbrigativamente come lo sporco sotto il tappeto storico del totalitarismo socialista.

Chi vincerà?

Queste cose a Bruxelles non si scoprono ora. Ma d’altronde negli uffici della Commissione, ancora oggi, l’allargamento a Est è considerato, per manierismo conformista, un successo.

Tuttavia, un successo tale che, al momento, non ne sono previsti altri perché l’Europa deve ancora “digerire” Visegrád. Ma su chi, alla fine, avrà la forza per cannibalizzare l’altro (almeno in termini di leadership), la partita è ancora aperta e si accettano scommesse.

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Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

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