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Foreign fighters: come cambiano i flussi verso Siria e Iraq

Nel 2015 i combattenti che da Europa e Asia hanno raggiunto le roccaforti ISIS isono raddoppiati. L’analisi del think tank The Soufan Group

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Mentre a livello internazionale cresce il numero delle coalizioni anti-terrorismo e anti-ISIS, continua a moltiplicarsi parallelamente anche il numero dei combattenti che si unisce allo Stato Islamico o alle altre milizie jihadiste attive nella regione del Syraq (abbreviazione dall’inglese tra Siria e Iraq).

È quanto emerge dall’ultimo rapporto sul flusso di foreign fighters verso Siria e Iraq pubblicato a dicembre da The Soufan Group, think tank di analisi strategica con sede a New York, Londra, Doha e Singapore. L’indagine condotta dal team di ricercatori e analisti su fonti governative e di altre organizzazioni internazionali, rappresenta l’aggiornamento di un primo rapporto uscito a giugno del 2014. Se un anno e mezzo fa si contavano approssimativamente 12mila foreign fighters provenienti da 81 Paesi, adesso le stime calcolano che tra Siria e Iraq sono presenti tra i 27 e 31mila combattenti provenienti da almeno 86 Paesi.

 

Nonostante gli sforzi di contenimento messi in atto dai governi arabi e occidentali, dunque, il numero complessivo di simpatizzanti jihadisti è sicuramente raddoppiato. E la stima interessante è che il fulcro dei nuovi adepti non è da individuare nei Paesi arabi (dove il numero dei combattenti appare comunque in crescita) bensì tra l’Europa occidentale, Russia e Asia centrale.

 

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Da sole Francia, Germania, Regno Unito e Belgio hanno fornito almeno 3.700 combattenti su un totale di 5.000 partiti nel 2015 dall’Europa verso la Siria. Il senso di alienazione e i precedenti nella criminalità comune sembrano essere gli elementi ricorrenti nei foreign fighters che partono dal nostro continente. Nel complesso, il numero di combattenti partiti dai Paesi europei è raddoppiato rispetto ai circa 2.500 del 2014, mentre la percentuale di combattenti delle ex Repubbliche sovietiche ha subito addirittura un incremento del 300%. Secondo le statistiche fornite dal governo di Mosca, erano appena 800 i foreign fighters partiti dalla Russia nel 2014, mentre al settembre 2015 almeno 2.400 combattenti russi avrebbero raggiunto i territori finiti sotto il controllo dello Stato Islamico in Siria e Iraq.

 

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Se il flusso dei combattenti provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente è cresciuto pressoché in maniera costante tra il 2014 e il 2015, a essere cambiate risultano – secondo le indagini condotte dal Soufan Group – le modalità di reclutamento. Gli adepti della prima fase sembrano essere partiti dalla regione MENA (come anche dal resto del mondo) “grazie” quasi esclusivamente alla propaganda on line dello Stato Islamico, convinti dal messaggio di poter contribuire alla fondazione di uno Stato nuovo, senza corruzione ed empietà, e spinti dalla speranza di avviare all’interno del Califfato una nuova vita di eguaglianza e giustizia, contrariamente a quella vissuta nei Paesi di provenienza. Nella seconda fase, questo flusso incessante di combattenti arabi sembra essere stato generato invece attraverso l’instaurazione di rapporti diretti tra reclutatori e nuove leve. In molti dei casi analizzati, sono stati i combattenti di ritorno dai teatri di guerra (che spesso, vale la pena ricordarlo, all’interno delle loro comunità di appartenenza acquisiscono notorietà e rispetto) a creare nella loro cerchia di amici e famigliari nuovi fanatici aspiranti jihadisti.

 

Questo è in parte quello che si è verificato anche in Francia e Belgio, come la storia di Abdelhamid Abaaoud ha messo in risalto dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre. Succede così che i nuovi adepti fedeli allo Stato Islamico vengano reclutati da figure carismatiche rientrate dai combattimenti. Alcuni di questi nuovi adepti partono poi per il jihad in Siria e Iraq, altri invece restano nei Paesi di residenza dove vanno a infoltire pericolose cellule dormienti.

 

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Secondo il rapporto, le stime attuali dei foreign fighters che hanno fatto rientro in Europa è del 20-30%, ma si tratta di un dato destinato a salire pericolosamente se i raid della comunità internazionale in Siria e Iraq dovessero effettivamente costringere gli eserciti dello Stato Islamico alla ritirata. Il rischio legato alla guerra contro ISIS, infatti, risiede nel possibile cambio di strategia attuato dalla sua leadership. Se l’obiettivo non sarà più il consolidamento territoriale nella regione del Syraq, potrebbe diventare l’attacco ai nemici del Califfato nel cuore dell’Occidente. Allora – sostiene il Soufan Group – i foreign fighters avranno un ruolo del tutto nuovo e ben più pericoloso da gestire per i governi occidentali.


* I grafici sono stati realizzati dal report di Soufan Group

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Marta Pranzetti