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Europa: la "calda" primavera della Spagna

Dopo pochi mesi di governo socialista il paese torna alle urne tra crisi economica, Brexit ed un nuovo partito populista, Vox

Sarà una primavera «caliente», la prossima, per la Spagna. Il 28 aprile i sudditi di re Felipe VI torneranno alle urne per la terza volta in meno di quattro anni. Il presidente socialista Pedro Sánchez (PSOE) è stato costretto al voto anticipato dopo appena sette mesi di governo. Abbandonato dagli indipendentisti catalani e baschi che in cambio del sì alla legge finanziaria pretendevano di aprire un tavolo sull’autodeterminazione. La campagna elettorale si mescolerà con le tradizionali processioni di incappucciati della Settimana santa e finirà con l’inizio della stagione delle corridas, il 26 maggio, quando gli spagnoli voteranno eleggeranno sindaci e governatori regionali oltre che i deputati europei.

Almeno di lavoro e portafoglio gli spagnoli non dovranno preoccuparsi (troppo) nei prossimi mesi. La disoccupazione rimane ancora alta (14 per cento), ma quest’anno l’economia spagnola farà meglio di Germania, Francia o Italia. Le nuvole comunque restano all’orizzonte e i problemi potrebbero diventare molto seri con una Brexit dura. «La Spagna è cambiata molto in poco tempo: la fine della crisi economica ha coinciso con l’inizio di una fase di instabilità politica» dice a Panorama Pablo Simón, sociologo dell’Università Carlos III di Madrid. «Siamo passati dal bipartitismo perfetto alle maggioranze variabili. Insomma, una Spagna che assomiglia sempre di più all’Italia».

Dalle ultime elezioni del 2016, il Parlamento di Madrid ha respinto due candidati, votato una mozione di sfiducia e varato due governi di colore politico opposto (di destra con Mariano Rajoy e poi di sinistra con Pedro Sánchez). A differenza dell’Italia, che ha chiuso i porti alle imbarcazioni dei migranti dal nord Africa, Madrid invece ha mantenuto una politica di accoglienza. In un anno il numero dei senza permesso di soggiorno si è quasi triplicato, passando dai 24 mila del 2017 ai 60 mila del 2018 e provocando così un vero e proprio collasso delle strutture della «frontiera sud», l’Andalusia.

È stato proprio nei paesini dell’Andalusia con maggior presenza di immigrati che è emerso Vox, il partito che piace molto a Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump. Antifemminista, anti-immigrazione e per la linea dura nei confronti della Catalogna. Il quarantenne Santiago Abascal ha convertito Vox da forza extraparlamentare a socio chiave di una improbabile alleanza che va dai liberali «macronisti» di Ciudadanos fino ai conservatori del Partido Popular. Insieme sono riusciti nella «reconquista» dell’Andalusia dopo 37 anni di vittorie socialiste. Ora puntano alle politiche del 28 aprile e a fare il bis il 26 maggio alle Europee.

Vox ha sostituito Podemos come partito dello scontento. Ada Colau a Barcellona e Manuela Carmena a Madrid, le sindache «indignados», rischiano di non farcela a ottenere il secondo mandato. Pagano la disastrosa gestione di Pablo Iglesias, líder máximo del partito, che ha dilapidato la credibilità degli «indignados» dopo aver scelto sua moglie come vice del partito, purgato gli avversari interni ed essersi comprato una villa da 600 mila euro.

Come se tutto questo non bastasse, c’è poi la variabile catalana e il processo ai leader indipendentisti della regione. «Gli indipendentisti credevano di ottenere la secessione in tempi record. Non è stato così e ora non hanno un progetto» spiega Josep Maria Antentas, politologo dell’Universitat Autònoma de Barcelona. «La questione giudiziaria è l’unica cosa che tiene unite le anime del movimento, diviso tra chi sostiene ancora lo strappo con Madrid, come l’ex presidente Carles Puigdemont, e chi invece è disposto a dialogare».

Nessuna delle grandi banche e imprese abbandonarono Barcellona nei giorni del referendum è tornata. La Catalogna è ancora il motore produttivo del Paese, ma è stata raggiunta da Madrid e il 2019 potrebbe essere l’anno del sorpasso. «La Spagna ha resistito al forte deterioramento delle economie della zona euro. La crescita nel 2019 sarà attorno al 2,1-2,4 per cento di Pil e si creeranno nuovi posti di lavoro». Consulente del «think tank» Afi (Analistas financieros internacionales), Gonzalo García Andrés è stato direttore finanziario internazionale del Tesoro spagnolo nel momento più duro della crisi del debito. È ottimista, ma non nasconde che l’economia spagnola si sta raffreddando.

La situazione delle famiglie è migliorata e i consumi interni stanno spingendo l’economia. In una situazione di guerra commerciale internazionale questo è il miglior scenario possibile. «Ma se la tendenza continua, con le esportazioni in calo, la forte domanda interna potrebbe convertirsi in un problema» continua l’economista.

Sono state proprio le esportazioni, rese competitive dal taglio del costo del lavoro, a far rialzare la testa alla Spagna. Insieme al turismo. Nel 2017 la Penisola iberica è stata il secondo Paese più visitato al mondo con 81,8 milioni di turisti dietro solo alla Francia e davanti a Stati Uniti, Cina e Italia. Nel 2018 il turismo ha creato 50 mila nuovi posti di lavoro.

La sfida ora è mantenere queste cifre record. L’anno scorso si è chiuso con una flessione dell’1 per cento per la spinta di Egitto, Tunisia e Turchia. Ma la Spagna teme soprattutto le conseguenze di una Brexit dura sui 18 milioni di turisti britannici.

Il costo sociale dell’austerità è stato enorme ma ha funzionato. La riforma del lavoro ha permesso a 10 milioni di persone di trovare un impiego in appena cinque anni. Il tasso di disoccupazione rimane pur sempre il doppio della media europea, pari al 6,8 per cento, e gli under 25 sono quelli che se la passano peggio. Uno su tre non lavora e la colpa è anche del sistema educativo: solo il 12 per cento degli studenti sceglie la formazione professionale rispetto al 29 per cento della media europea.

Per gli over 50 una speranza si è aperta attraverso l’economia collaborativa. Disoccupato praticamente dall’inizio della crisi, Eduardo García, 62 anni, ha trovato lavoro quattro mesi fa come autista di Cabify, l’Uber spagnolo.

García è stato uno dei leader delle proteste degli autisti di fronte alla sede di Podemos, che ha sostenuto misure protezionistiche a favore dei taxi. Anche se alcuni preferiscono dirsi «autisti per scelta», la maggior dei manifestanti, in là con gli anni, ammette che è stata la necessità a spingerli ad accettare il lavoro.

Lo sciopero è stato convocato contro i limiti imposti alle app di mobilità in Catalogna. Una scelta che ha provocato il licenziamento di 3 mila conduttori di Uber e Cabify. «Vogliono limitare le compagnie tecnologiche per competenza sleale, ma sono state le uniche a darci una seconda opportunità. Le condizioni di lavoro? Dure, ma non per questo indegne».

Molti autisti infatti sono inquadrati come lavoratori autonomi pur essendo dipendenti dai turni e dalle direttive delle compagnie. Il popolo delle partite Iva in Spagna vale già quasi un quinto (21,9 per cento) di tutta la forza lavoro: 4 milioni di persone.

A fare giustizia spesso ci pensano i tribunali, con l’unico risultato però di aumentare la confusione. E così i «rider »di Deliveroo hanno vinto la battaglia per farsi assumere a tempo indeterminato a Valencia, mentre a Madrid il tribunale ha dato ragione a Glovo.

La sanità non se la passa meglio. «Ho 12 minuti per paziente. In un turno di lavoro posso visitare fino a 60 malati» spiega Amelia, medico di base in quartiere alla periferia di Madrid, che non vuole dare il suo vero nome. Per le stesse ragioni, a dicembre, i medici catalani hanno scioperato una settimana intera. La colpa in parte è della politica del «tutto gratis»: in Spagna il ticket sanitario non esiste, nemmeno per le visite specialistiche. Soltanto le medicine si pagano, ma in base al reddito.

«Il vero rischio all’orizzonte è rappresentato dall’invecchiamento della popolazione. La crisi nei conti delle pensioni ci sarà nel 2025, ma la Spagna ha ancora tempo per trovare una soluzione, anche se una riforma della previdenza è politicamente improponibile dopo gli anni di austerità», spiega García Andrés. Al contrario, tanto Rajoy quanto Sánchez hanno utilizzato il ciclo economico positivo per rimuovere i fattori di stabilità introdotti durante la crisi. E conclude l’economista: «Il pericolo, se non si fa in fretta, è che una generazione intera paghi la mancanza di coraggio della politica di prendere una decisione».
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