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Elezioni Presidenziali Usa 2020: dalle primarie al voto tutti gli appuntamenti

Da gennaio a novembre saranno 11 mesi di politica intensa negli Usa. Ecco cosa succederà giorno per giorno fino al voto

Novembre 2020, è la data delle Elezioni Presidenziali negli Usa. Data da segnare con il pennarello rosso sul calendario per i significati politici che da sempre rappresenta. Da una parte Trump che punta alla riconferma, dall'altra i Democratici, divisi in correnti e con vari nomi pronti a sfidarsi per le primarie.

Questi tutti gli appuntamenti che ci separano dal voto:

Le primarie del Partito Democratico americano si avvicinano: il prossimo 3 febbraio prenderanno infatti il via con il caucus dell’Iowa, cui seguiranno l’11 febbraio le primarie del New Hampshire. Due appuntamenti elettorali fondamentali non tanto per il numero di delegati che mettono in palio, quanto in realtà per la notorietà mediatica che generalmente conferiscono ai vincitori. Del resto, non è un caso che, da più di un mese, i principali candidati in lizza per la nomination stiano battagliando proprio per ottenere il primato nel cosiddetto Hawkeye State: un elemento chiaramente emerso soprattutto dal sesto dibattito televisivo, tenutosi in California lo scorso dicembre. La situazione, per il momento, resta sospesa nella più totale incertezza. Nonostante ad oggi si siano ritirati quindici candidati, ne restano tuttavia in corsa al momento ben quattordici: un numero considerevole. Senza poi trascurare che, nella parte alta della classifica sondaggistica, non si scorgano ancora figure in grado di emergere nettamente. A livello nazionale, la media delle rilevazioni di Real Clear Politics, dà l’ex vicepresidente Joe Biden primo al 28,5%, seguito dal senatore del Vermont, Bernie Sanders, al 19%. Al terzo posto si trova invece la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren con il 15% del gradimento, mentre il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg, è quarto con l’8%. Mike Bloomberg, in leggera ascesa, risulta invece quinto al 6%.

Questi dati ci forniscono alcuni elementi di riflessione. In primo luogo, troviamo la debolezza di Biden: nonostante continui ad essere virtualmente il front runner, l’ex vicepresidente mostra un primato sondaggistico claudicante e farraginoso, che – come vedremo – non è affatto detto riesca a reggere alle prime prove elettorali concrete. In secondo luogo, è interessante il caso di Elizabeth Warren: dopo la sua vertiginosa ascesa nel gradimento tra settembre e ottobre, la senatrice del Massachusetts ha inaugurato una progressiva fase calante che, da potenziale front runner, l’ha vista tornare un po’ mestamente sul terzo gradino del podio. L’esatto contrario di Bernie Sanders che, in difficoltà nei mesi autunnali, ha invece riacquistato smalto a partire dallo scorso dicembre. Si tratta di un ribaltamento curioso ma che potrebbe essere stato dettato dalla candidatura di Michael Bloomberg, ufficializzata – guarda caso –  lo scorso 24 novembre. Raramente una campagna elettorale per la nomination democratica si è rivelata divisiva e polarizzata come quella attuale. Non solo queste (con quasi trenta candidati complessivamente in lizza) sono state le primarie più affollate della storia americana, ma – nello specifico – un problema fondamentale è costituito dalla faida intestina che vede contrapposte le correnti centriste a quelle legate alla sinistra. Quelle correnti di sinistra che, divise a propria volta tra loro, vantano come cavallo di battaglia la lotta a Wall Street e allo strapotere della finanza. Va da sé che una candidatura come quella di Bloomberg (un multimiliardario di tendenze destrorse) non possa che aver allarmato quelle galassie: galassie che hanno quindi scelto di iniziare a compattarsi attorno a Sanders, con conseguente danno per la Warren.

La dinamica è particolarmente illuminante per quanto riguarda la relazione politica tra questi due candidati. Nonostante una certa vulgata mediatica tenda assai spesso a considerarli due facce della stessa medaglia, la situazione potrebbe in realtà rivelarsi molto più complessa e articolata. E’ indubbiamente vero che Sanders e la Warren condividano alcune battaglie politiche fondamentali (si pensi solo alla sanità pubblica). Ma è altrettanto indubbio che tra i due non ci sia una sovrapponibilità piena, a partire dagli elettorati di riferimento: se la senatrice del Massachusetts va forte tra le donne e i ceti istruiti, Sanders può invece contare sull’appoggio degli operai e degli impiegati nella grande distribuzione (soprattutto Walmart e Amazon). Più in profondità, pur essendo entrambi rappresentanti della sinistra dem, i due sono divisi da un elemento fondamentale: Sanders coltiva una carica antisistema, che lo porta – non a caso – a definirsi orgogliosamente “socialista”: una carica critica diretta tanto all’establishment del Partito Democratico quanto a quello finanziario. La Warren, pur essendo lontana dalle correnti centriste dell’Asinello, non sta invece conducendo una lotta alle alte sfere del suo partito né ha intenzione di mettere in discussione l’assetto capitalistico degli Stati Uniti. Per capirci, se Sanders rappresenta a sinistra ciò che Donald Trump ha in buona sostanza rappresentato per i repubblicani nel 2016, la Warren – dal canto suo – è molto più vicina all’establishment democratico di quanto possa apparire a prima vista. Un elemento che parrebbe confermato dalle recenti indiscrezioni di The Hill, secondo cui l’ex presidente americano, Barack Obama, starebbe agendo dietro le quinte per favorire l’ascesa della senatrice. Il punto è che questa ambiguità potrebbe finire col danneggiare la Warren. E non sarà un caso che, davanti alla candidatura di un rappresentante dell’alta finanza come Bloomberg, sia stato Sanders, e non lei, a salire nei consensi.

Non è comunque solo a sinistra che si combatte per ottenere il primato. Anche al centro, da alcuni mesi, si assiste a uno scontro spietato. Biden è sempre più azzoppato da proposte programmatiche tendenzialmente obsolete (per non parlare delle gaffe e dei dubbi sulla sua tenuta fisica): un elemento che ha aperto degli spazi di confronto. Non è un mistero che Bloomberg sia sceso in campo proprio per questo, mentre  i sondaggi continuano a premiare Buttigieg. Originariamente molto più spostato a sinistra, il sindaco di South Bend si è progressivamente orientato verso posizioni centriste, colmando un certo vuoto nell’area e riuscendo laddove la senatrice californiana, Kamala Harris, aveva invece miseramente fallito. Rispetto a Biden e Bloomberg, Buttigieg ha anche il vantaggio di essere un outsider: fattore che gli consente qualche “eresia” programmatica, utile magari per strizzare l’occhio ogni tanto a sinistra. Se in questo momento appare in grande spolvero, bisogna tuttavia fare attenzione alle sue effettive capacità: il rischio è infatti che possa rivelarsi l’ennesimo candidato prefabbricato e tutto marketing politico che la storia recente americana ci ha abituato a conoscere (si pensi soltanto al Marco Rubio del 2016). E – sotto questo aspetto – sarà interessante vedere se il sindaco risulterà realmente in grado di ottenere risultati di sostanza nei primi appuntamenti elettorali del mese prossimo.

E qui veniamo alla grande incognita. I sondaggi nazionali, si sa, in America contano poco. Bisogna quindi analizzare quali siano i numeri negli Stati che andranno per primi al voto. Secondo l’Iowa State University, in Iowa Buttigieg sarebbe al primo posto con il 24%, seguito da Sanders al 21%. Dietro comparirebbero Elizabeth Warren al 18% e Biden al 15%. Lo scarto al vertice è troppo risicato per riuscire a capire chi abbia reali chances di vittoria. Resta tuttavia il fatto che l'ex vicepresidente e - soprattutto - la senatrice del Massachusetts riscontrino qualche difficoltà di troppo. Secondo WBUR, in New Hampshire Buttigieg sarebbe al 18%, tallonato da Biden e Sanders (rispettivamente al 17% e al 15%), seguirebbe la Warren al 12%.

Se per Buttigieg e Sanders la situazione appare per ora abbastanza favorevole, non si può dire altrettanto per Biden e la Warren. Il problema principale per l’ex vicepresidente non è costituito tanto dal 15% in Iowa quanto dal 17% in New Hampshire: in Iowa si tiene infatti un caucus (un’assemblea ristretta degli iscritti al partito che generalmente – per quanto non sempre – tende a premiare i candidati più radicali). In New Hampshire, di contro, si tengono primarie ibride, cui possono partecipare anche gli elettori indipendenti: un fattore che tende a premiare i candidati potenzialmente più trasversali e quindi più inclusivi, quelli che –  per intenderci –  sanno come attrarre i voti decisivi. E’ dunque in New Hampshire che Biden non può permettersi di fallire, se vuole cercare di conquistare la nomination democratica: e le suddette difficoltà certo non lo fanno oggi troppo ben sperare. La Warren, dal canto suo, avrebbe necessità di vincere almeno in uno dei due Stati. Bisognerà quindi vedere se nel mese di gennaio sarà in grado di recuperare terreno: un obiettivo non facilissimo, viste le ambiguità nei rapporti con l’establishment e vista anche la guerra di logoramento in corso da settimane con Buttigieg. Bloomberg non si presenterà invece né in Iowa né in New Hampshire: l’ex sindaco di New York punta infatti sugli Stati di grandi dimensioni. Una strategia che già Rudy Giuliani tentò alle primarie repubblicane del 2008 ma che si rivelò ben presto fallimentare.

Quella che pare comunque profilarsi all’orizzonte è una situazione frastagliata, in cui difficilmente emergeranno netti vincitori prima del Super Martedì di marzo. E non è neppure detto che lo stesso Super Martedì contribuirà a fare poi troppa chiarezza. Lo scenario più probabile, ad oggi, è quello che negli Stati Uniti qualcuno ha già ribattezzato “bloody primary”: primarie “sanguinose”, agguerrite e “cattive”, senza una figura in grado di emergere chiaramente. Una situazione spinosa che potrebbe portare a una “convention contestata”: un’ipotesi tuttavia ancora prematura per essere formulata.  Ciò che continua a mancare è la figura di un federatore, in grado di mettere insieme le anime di un partito sempre più dilaniato dalle tensioni interne: tensioni acuite dalla discesa in campo di Bloomberg.

Le idee, per il momento, restano poche e (talvolta) raffazzonate. Sanders è l’unico che – a sinistra – abbia qualcosa da dire agli operai, mentre gli altri non sembrano per ora come orientarsi nel complicato mondo della Rust Belt: un mondo che – nel 2016 – ha voltato le spalle ai democratici per votare Trump. La riforma sanitaria continua ad essere motivo di scontro intestino, mentre sulle disuguaglianze sociali ognuno va in ordine sparso. Il vero dramma di queste primarie democratiche è che nessuno sembra avere realmente coraggio e decisione. Tutti sono pronti a criticare l’attuale presidente per “andare a braccetto con i dittatori” ma nessuno dice che cosa abbia intenzione di fare dei dazi contro la Cina, nel caso arrivasse alla Casa Bianca. Sulla politica mediorientale si assiste a un guazzabuglio, per non parlare poi dell’impeachment, il cui potenziale effetto boomerang è stato compreso solo da Andrew Yang e Bernie Sanders. L’asinello resta quindi sospeso tra i vagheggiamenti di un’ingenua “restaurazione” obamiana e intenti (più o meno sinceramente) “rivoluzionari”. Quella democratica continua, insomma, ad essere una casa divisa.

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Stefano Graziosi