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ANSA/ANGELO CARCONI
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Elezioni americane: ora Bernie Sanders deve scegliere

Il senatore del Vermont non vincerà le primarie. Ma, in vista della Convention di luglio, può fare molto per portare Hillary alla Casa bianca

Nonostante sia destinato alla sconfitta, e il sogno di conquistare la Casa Bianca sia ormai svanito, Bernie Sanders ha tutte le ragioni per sostenere che è stato un 2016 ricco di soddisfazioni non solo per sé, ma anche per quelli che credono in quello che ha sostenuto durante tutta la campagna elettorale.

Con mezzi finanziariamente risibili, e grazie solo al crowd-funding e all'entusiasmo dei suoi supporter, il senatore del Vermont è riuscito a reintrodurre la parola-tabù socialismo nel dibattito pubblico americano, ha costretto Hillary Clinton a sposare una piattaforma ben più radicale di quanto non le avessero suggerito inizialmente i suoi consiglieri, ha portato alle urne milioni di giovani sfiduciati che non erano mai stati iscritti prima nelle liste del Partito democratico, ha riempito le piazze, ha parlato senza infingimenti di temi-chiave come la questione di approvare regole più restrittive per Wall Street e la necessità di un  welfare universale dalla culla alla tomba che nessun candidato, nemmeno Obama nel 2008, aveva mai avuto il coraggio di affrontare con tanta chiarezza e radicalità politica. 

DUE ESEMPI PER SANDERS
Perché questi risultati possano però tradursi in un cambiamento profondo della cultura politica americana, e anche della geografia interna del Partito democratico, occorre però  in vista della Convention di Philadelphia di luglio che Sanders scelga a chi assomigliare: se a Ted Kennedy nel 1980 oppure a Hillary Clinton nel 2008.

Nel 1980 Edward Ted Kennedy, sconfitto da Jimmy Carter alle primarie democratiche, non dedicò al presidente Carter (già indebolito a causa dello scoppio della crisi degli ostaggi in Iran) che qualche gelido passaggio del suo discorso conclusivo al termine delle primarie. Tutti gli storici americani concordano oggi nel ritenere che il mancato endorsement dello sconfitto Kennedy ebbe un peso per niente irrilevante nel provocare la sconfitta di Mr Nocciolina alle elezioni predenziali del 1981, stravinte dall'outsider repubblicano Ronald Reagan.

Al contrario, quando Hillary fu sconfitta nel 2008 contro tutti i pronostici iniziali dal senatore Barack Obama al termine di una dura e violentissima campagna elettorale, l'ex First Lady seppellì l'ascia di guerra edichiarò alla Convention dell'unità che «Barack Obama is my candidate and he must be our president». Parole chiarissime. Il risultato fu che i democratici si ricompattarono e Barack Obama, una volta eletto, la ricompensò con la nomina a segretario di Stato.

IL PARTITO DEMOCRATICO DEL FUTURO
A chi vorrà assomigliare Sanders? A Hillary del 2008 o a Ted del 1980? E soprattutto: riuscirà - al termine di una campagna elettorale dove sono volati gli stracci e i toni sono apparsi talvolta incompatibili con la militanza in un unico partito - a convincere i suoi giovani supporter a votare per la disprezzata Hillary in nome dell'unità del partito e della necessità di fermare Donald Trump?

Qualche segnale su come si muoverà Sanders, a ben vedere, c'è già stato. Il primo segnale è che, dopo aver incassato la vittoria nel West Virginia, Sanders - che è un idealista ma non è certo un politico di primo pelo - ha dichiarato sacra l'unità del partito: «Ho un messaggio per i delegati a Filadelfia. Se con Hillary Clinton abbiamo molte differenze, su una cosa siamo d'accordo: dobbiamo sconfiggere Donald Trump».

Il secondo segnale è legato al fatto che il Partito democratico americano è già cambiato, per effetto dei cambiamenti demografici che hanno reso i bianchi americani per la prima volta nel 2015 una minoranza in America, certo. Ma è cambiato anche perché - dopo la rivoluzionaria elezione di Obama nel 2008 - Sanders è riuscito a portare alle urne milioni di giovani che mai prima avevano fatto politica, che sono portatori di visioni alternative e ben più radicali di quelle dei loro genitori, che rischiano di essere più attratti dall'estansionismo che da un voto per il «male minore». Come portarli dalla propria parte? Come stabilizzarli come nuovi elettori?

IL COMPITO DI HILLARY
Quello che è certo è che assicurarsi il loro sostegno, facendo proprie alcune rivendicazioni radicali di Sanders come quella di innalzare a 15 dollari la paga oraria minima negli Stati Uniti, significa per i democratici garantirsi probabilmente una nuova base elettorale stabile per decenni. Una specie di assicurazione sul futuro. Il ruolo di Sanders per il futuro del Partito - se riuscirà a convincere i suoi a votare per Hillary, contribuendo a farla eleggere presidente - sarà probabilmente decisivo non solo alle presidenziali ma per molti anni.

Hillary - che tra gli elettori democratici è più rispettata che amata - ne è perfettamente consapevole. E farà di tutto, secondo i più avvertiti analisti politici americani, per garantirsi il sostegno del senatore-rivale, offrendo poltrone o programmi socialmente più radicali. Non è un caso che, dopo la vittoria a New York, abbia cominciato a cambiare toni. Certo, Hillary ha un altro problema ancora: riuscire a fare proprie le rivendicazioni di Sanders, di cui ha un vitale bisogno se vorrà sconfiggere Trump, senza però allontanare troppo quei repubblicani moderati che potrebbero votarla (turandosi montanellianamente il naso) per evitare una vittoria del miliardario newyorchese.

Non sarà un compito semplice, ma i Billary - come li chiamano in America - fanno politica da mezzo secolo e difficilmente, sul piano tattico, commettono errori politici irrimediabili.



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Paolo Papi