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ALEXEY DRUZHININ/AFP/Getty Images
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Ecco perché dalla crisi di Londra Putin è uscito ancora più forte

L’aggressiva campagna mediatica e diplomatica dell’Occidente ha fatto compattare il già solidissimo fronte favorevole al Presidente russo

Le elezioni russe, per le quali Vladimir Putin è risultato schiacciante vincitore, erano destinate alla noiosa conferma del pronostico.

A sconvolgere la situazione è invece giuntala crisi delle spie, innescata a Londra dal misterioso attentato con l’agente nervino. Siamo ora in acque incognite. Sia perché i fatti di Londra, al momento, danno mare mosso in Occidente molto più che a Mosca, dove il mare nemmeno arriva. Sia perché, come appare a molti, in un medesimo scenario internazionale qualsiasi leadership di un Paese sospettato di essere dietro un attacco chimico col gas nervino ne sarebbe uscita danneggiata, mentre nella Russia di Putin l’incidente di Salisbury rischia addirittura di compattare la Madre Russia attorno al suo carismatico leader.

Stili a confronto

Gran Bretagna e Russia sono al momento irriconoscibili. La prima sembra aver chiuso col proverbiale aplomb che ne ha sempre contraddistinto lo stile.

Quando un Primo Ministro prende il microfono e si rivolge direttamente a una potenza straniera accusandola di un misfatto atroce, o quando un Ministro di Sua Maestà dice, testualmente, Russia must shut up (letteralmente, chiudere il becco) ci troviamo di fronte a rovesciamento semantico o a una legge del contrappasso.

La Russia, pioniera smaliziata nella costruzione della post-verità - come il Russiagate insegna - nel ruolo di vittima alla quale viene rovinata la reputazione politica per mezzo di quella mediatica.

Sulla stampa russa l’uscita di Gavin Williamson è stata bollata come fishwife’s rhetoric, insomma gossip da pescivendoli.

Sergej Lavrov ha detto che Mosca certamente espellerà a sua volta diplomatici britannici, ma “lo farà in maniera educata” cioè comunicandolo prima a loro e non, come ha fatto Theresa May, annunciandolo dai microfoni di un glorioso Parlamento culla del diritto trasformato in podio da grezzo comizio elettorale.

Eppure le elezioni si tengono in Russia, non nel Regno Unito. Putin ha fatto trapelare la sua preoccupazione per l’isteria antirussa che cresce nel mondo occidentale, ma ha lasciato la regia delle repliche al suo impeccabile Ministro degli Esteri.

La gogna mondiale

Il paradosso è insomma quello di un Putin lanciato verso una riconferma, mentre l’aristocrazia diplomatica globale, composta da Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Germania e Unione Europea lo indica come un criminale, addirittura come il mandante diretto degli agguati a Litvinenko e agli Skripal.

Con curiosa coincidenza, anche il governo americano ha alla fine annunciato sanzioni per il Russiagate, contribuendo ad alimentare un’isteria istituzionale verso il Cremlino che rischia di sfociare nel parossistico.

Sempre sulla stampa russa, nella sezione degli op-ed (cioè degli opinionisti indipendenti alle redazioni), fioccano le analogie d’ispirazione storica; la più sferzante è quella di un affermato accademico britannico con studi alla Sorbona, e cioè John Laughland , che descrive i russi vittime di una logica persecutoria da Medio Evo, quella del tristemente celebre: "ebrei avvelenatori dei nostri pozzi".

La Russia di Putin, in questa lettura, sarebbe il capro espiatorio delle contraddizioni dell’Occidente. Il debole governo May alle prese con una Brexit tutt’altro che facile da gestire (e ancor meno facile da spiegare); gli Stati Uniti in piena crisi identitaria da “anno secondo” del trumpismo, la Germania che impiega sei mesi(!) per formare un governo “già visto”, la UE a guida polacca (Polonia mai amica della Russia a vocazione imperiale) con Donald Tusk; la sola Francia, con Emmanuel Macron, ha solide basi politiche, ma la solidarietà dell’Eliseo sembra al momento dettata più da un ordine di scuderia, sotto ombrello Nato, piuttosto che dall’evidenza di prove sulle quali nessuno per ora ha potuto svolgere indagini indipendenti.

In una Londra ribattezzata Londongrad, dove gli emigrati russi a differenza degli émigré al tempo della Rivoluzione (tutti anti bolscevichi e quasi tutti a Berlino), possono essere contro o pro Putin, e dove il denominatore comune è la grande ricchezza personale, Mosca ha più agenti che al tempo della guerra fredda.

Il leader che casca sempre in piedi

Dal braccio di ferro diplomatico dove nessuno è vittima e carnefice, perché comunque parliamo di potere e il disinteresse non fa parte delle opzioni, Putin sembra uscirne in una win-win position. La sua popolarità aumenta, soprattutto se gli alleati occidentali danno la sensazione di un processo indiziario non basato su prove certe; una guerra di comunicazione e di mosse diplomatiche dove Mosca sembra riuscire a salvare le forme meglio dell’Occidente, o in ogni caso è partita prima nel decifrare e sfruttare a suo esclusivo interesse le idiosincrasie della società moderna, esposta – e capiamo oggi impreparata - all’impatto dei social media.

Certo le forme non sono la sostanza, ma nel mondo “social” si avvicinano molto ad essa. Attaccare frontalmente Putin, a torto o a ragione, dovrà stabilirlo un’inchiesta terza e imparziale, potrebbe significare dargli ancora più forza sullo scacchiere interno dove non ha rivali e dove l’immagine patriottica del glorioso passato imperiale (zarista o sovietico poco importa nell’ortodossa Russia atemporale) si fonde con quella del futuro e dell’annunciata missione su Marte.

Col sostegno del suo popolo

L’opinione pubblica russa appare impermeabile alla propaganda dell’Occidente perché, con la sua narrazione del potere, Putin riesce a far appiattire sullo stesso piano ermeneutico (e anti-patriottico) lo scandalo per le spie braccate e i diritti delle opposizioni, il supporto al regime di Damasco e i diritti civili LGTB, e con un sistema oligarchico fondato sulla lealtà al capo politico della comunità russa, cioè Putin medesimo, anche la corruzione diventa un razionale protocollo che rende fluido il sistema invece di danneggiarlo.

Putin ha detto di essere come i russi gli chiedono di essere. Questa frase, più semplice da pronunciare che da mantenere, contiene la formula del suo successo. Ecco perché è difficile che una crisi internazionale come quella in corso a Londra possa scalfirne l’immagine, perché i russi non la intendono come un attacco al loro massimo leader politico, ma come un’offensiva premeditata contro tutto il popolo russo. E si compatteranno, ancora una volta.

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Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

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