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LOUAI BESHARA/AFP/Getty Images
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Donne siriane, il ritorno in cattedra, ma senza diritti

Ricominciano le scuole anche per le insegnanti profughe siriane, mentre ogni giorno migliaia di donne vedono allontanarsi il sogno di libertà

Con la riapertura delle scuole, molte donne siriane che vivono in Turchia si preparano a iniziare un nuovo anno nella veste di insegnanti.

Alcune lo erano anche in Siria, altre lo sono diventate per necessità:, quella di esercitare una professione che consenta loro di vivere e di essere autonome e quella di trovare un senso alle loro nuove vite. Lontane dalle loro case, dai loro familiari e spesso dai loro stessi mariti, rimasti in Siria a combattere, incarcerati e molto spesso deceduti, devono affrontare tutte le difficoltà di vivere in Paese straniero, dove non mancano le ostilità.

Nelle città di confine si incontrano soprattutto donne sole, mentre nelle metropoli ci si può imbattere in interi nuclei familiari, che grazie a buone disponibilità economiche hanno aperto attività commerciali, in particolare nei settori gastronomico e artigianale. A volte la condizione di vedovanza può facilitare l’assunzione, perché molte scuole temporanee che accolgono bambini siriani sono sostenute da Ong che tutelano vedove e orfani. Nella maggior parte dei casi, però, non esistono forme di tutela sociale e gli stipendi bastano appena per gli affitti.

“Nessuno si preoccupa di sapere in che condizioni viviamo noi donne che non siamo vedove, ma ci dobbiamo comunque fare carico di tutto” – racconta Aya, trentaquattrenne originaria di Al Rastan. “Mio marito è completamente paralizzato dal collo in giù ed io mi devo occupare di lui da sola. Ha bisogno di assistenza continua ed io non lo posso lasciare mai. Mia figlia ha soli dodici anni e non è non posso affidarlo alle sue cure. Faccio lavori part time, pulisco le scale di alcuni palazzi e preparo conserve di pomodoro, ma a volte mia figlia è costretta a saltare la scuola per sostituirmi”.

Aya racconta che in Siria non lavorava, che la sua, era una vita agiata, col marito che gestiva alcuni negozi di abbigliamento.

Con l’inizio delle violenze i negozi sono stati prima saccheggiati, poi distrutti dai bombardamenti. Il marito è rimasto ferito proprio nel crollo di uno dei negozi e i medici non hanno potuto far altro che constatare lo stato di paralisi.

La nuova vita delle donne siriane profughe a volte sembra regalare loro nuove opportunità di realizzazione e successo, ma a volte il prezzo che devono pagare è molto alto. Come ci confida Mirfet, insegnante di inglese, nativa di Aleppo. “Ho quattro figli e in Siria non lavoravo, anche se mi sarebbe sempre piaciuto. Mio marito era architetto e la nostra condizione economica era buona. Poi abbiamo perso tutto, lo studio e la casa; ci siamo salvati dai barili bomba che il regime sganciava sul nostro quartiere fuggendo in periferia e poi attraversando il confine. Mio marito qui lavora solo saltuariamente e così ho cominciato a cercare un’occupazione e, grazie alla mia ottima conoscenza dell’inglese, non ho faticato a trovare un impiego, prima come insegnante di inglese in un liceo, poi come interprete e traduttrice. Mi chiamano ovunque e riuscivo a guadagnare bene, tanto da riuscire a prendere in affitto un appartamento decoroso e provvedere a tutte le necessità della famiglia. Allora, però, è iniziato il mio calvario”.

Mirfet racconta di un marito diventato morboso, ossessivo, a volte persino manesco, che invece di sostenerla e complimentarsi per i suoi successi, la accusa di godere della sua disgrazia e di mortificarlo perché disoccupato. Dopo aver sopportato per quasi due anni, cercando di capire la depressione e le difficoltà del padre dei suoi figli, la donna ha deciso di dire basta. Oggi Mirfet sta cercando di lasciare la Turchia insieme ai figli, ma per ora tutte le strane sembrano sbarrate.

Il lavoro, la famiglia, le spese, l’educazione dei figli.

Le sfide che affrontano ogni giorno le donne siriane profughe sono molte, ma la sfida più grande resta la conquista della libertà. "
Quando sono iniziate le sollevazioni contro il regime, sono stata tra i primi a scendere in strada e manifestare per chiedere libertà – racconta Lyna. “Oggi guardo alla Siria e riesco solo a piangere. Abbiamo vissuto l’incubo della dittatura e della repressione, poi quello del terrorismo internazionale, poi dell’ingerenza di molti Paesi stranieri. Non è questa la strada che porta un popolo, tantomeno le donne, alla libertà, al riconoscimento dei diritti umani. Le violenze ci hanno riportato indietro di decine, forse centinaia di anni, quando l’unico pensiero di tutti era pensare a sopravvivere e la segregazione femminile era una consuetudine. Più andranno avanti le violenze in Siria, più noi donne vedremo allontanarsi la via dell’autodeterminazione”.

Aubrey Wade. Oxfam
Una madre siriana con i suoi quattro figli in un campo profughi in Grecia

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Asmae Dachan