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FABRICE COFFRINI,MANDEL NGAN/AFP/Getty Images
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Cosa c’è dietro le minacce di Trump alla Corea del Nord

Ecco perchè Pyongyang rappresenta per gli USA la testa di ponte per avvicinarsi al bersaglio principale: la Cina

Come previsto, anche Donald Trump fa rullare i tamburi di guerra. Come sa ogni presidente americano, l’opzione bellica quando una presidenza è in difficoltà può rappresentare un più che efficace toccasana per allontanare le polemiche, ricompattare l’opinione pubblica, smorzare le opposizioni interne al partito e trascinare dalla propria parte il Congresso. "Se la Cina non risolverà il problema, lo faremo noi" ha affermato nel primo weekend di aprile in merito alla minaccia nucleare della Corea del Nord. Ma cosa si cela veramente dietro questi avvertimenti?

La strategia di Donald Trump
Trump ha iniziato il suo quadriennio in salita, per usare un eufemismo, a causa della strenua resistenza dell’establishment a stelle e strisce, che trama per eliminarlo anzitempo perché vede il tycoon come un outsider, e perciò un usurpatore. I democratici (ma anche alcuni repubblicani) tentano di affossare ogni decreto presidenziale, cioè lo strumento principe attraverso cui un presidente svolge la propria attività di titolare dell’esecutivo, e hanno già spolverato alcuni dossier “compromettenti” per abbatterlo. La via prescelta per trascinarlo in un impeachment (la messa in stato di accusa di un presidente) punta sui rapporti - suoi e del suo staff – con il Cremlino e, in particolare, con l’inner circle di Vladimir Putin.

Il presidente nega, ma ha già perso alcuni stretti collaboratori come il generale Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale, e Katie Walls, vicecapo di gabinetto. Mentre il ministro della Giustizia Jeff Sessions ha abbandonato le indagini sul cosiddetto “Russiagate” per il timore di un possibile conflitto d’interesse. Dunque, la faccenda è seria. Infatti, se questi rapporti fossero provati (come sperano i detrattori del tycoon), avendo mentito e tradito la fiducia degli americani, non sarebbe più degno di occupare la Casa Bianca.

I piani d’attacco sono pronti
Ma torniamo ai venti di guerra. Quale miglior nemico per gli Stati Uniti di un dittatore comunista, all’apparenza instabile e guerrafondaio e per di più a capo di un piccolo stato iper-militarizzato e quasi-nucleare, che minaccia direttamente il territorio americano con i suoi missili balistici?

Il leader della Corea del Nord, Kim Jong-Un, è balzato alle cronache mondiali per la serie di assassinii degli oppositori interni e per la sua pervicace volontà di procurarsi la bomba atomica che, a suo modo di vedere, è il solo strumento di deterrenza per affrancarsi da una destituzione frutto di un complotto interno oppure ordita da ingerenze straniere.

Secondo gli esperti del Dipartimento della Difesa americano, Pyongyang entro i prossimi cinque anni avrà sviluppato la capacità di lanciare un missile intercontinentale armato con una testata nucleare in miniatura, in grado anche di raggiungere le coste americane. E questo è inaccettabile non solo per Donald Trump, ma per qualsiasi governo degli Stati Uniti.

Se la minaccia nordcoreana fosse ritenuta credibile e imminente, o se Pyongyang minacciasse direttamente Seoul - la Corea del Sud è alleata degli Stati Uniti ed è tecnicamente in stato armistizio con la Corea del Nord dal 1953 - il Pentagono potrebbe anche decidere di lanciare un attacco militare preventivo e unilaterale.

"L’opzione è sul tavolo" ha confermato Donald Trump. Questo però non deve stupire, né allarmare. Perché i dossier sulla Corea del Nord, così come i piani militari e le regole d’ingaggio per un’eventuale conflitto, sono stati scritti da tempo, in quanto simili precauzioni sono il risultato della grande tradizione marziale americana, che può contare su innumerevoli studi del Pentagono e della National Intelligence in materia bellica. Qualsiasi amministrazione è tenuta a prenderne visione sin dal giorno dell’insediamento.

E, tra i primi dossier richiesti dal neo presidente americano alla National Intelligence, c’è stato proprio quello relativo al programma nucleare nordcoreano, letto il quale Trump ha commentato così: "La Corea del Nord ha appena affermato di essere prossima alla messa a punto di un’arma nucleare capace di raggiungere alcune aree degli Stati Uniti. Ciò non accadrà mai!".

La manovra d’accerchiamento
Oggi il presidente rispolvera la questione, minacciando apertamente Pechino d’intervenire in Asia, a pochi chilometri dai suoi confini. E se da un lato lo fa per opportunismo politico - il suo messaggio è destinato più a un uditorio interno che esterno - resta il fatto che la politica estera di questo esecutivo prevede un massiccio attacco (anzitutto commerciale) alla Cina, vero obiettivo finale di Donald Trump.

Anche per questo sarà importante seguire i prossimi sviluppi diplomatici nel sudest asiatico, dove il risiko di alleanze e riposizionamenti è appena ricominciato. Non può sfuggire, infatti, che le prime mosse della Casa Bianca siano orientate a lasciarsi definitivamente alle spalle la fallimentare strategia del Pivot to Asia tracciata da Obama: il nuovo presidente ha cancellato il TPP, la partnership transpacifica (morta sul nascere); è in attesa di pesare la fedeltà agli Stati Uniti delle Filippine del controverso presidente Rodrigo Duterte; pensa di cooptare Indonesia e Vietnam per porre un argine economico alla penetrazione cinese in America; è determinato a riportare le fabbriche e il lavoro delocalizzati in Asia nel recinto di casa. In sintesi, vuole imporre un nuovo ordine nel Pacifico. E, per ottenerlo, potrebbe iniziare a  fare pressione su Pechino, magari destabilizzando proprio la Corea del Nord o cavalcando le contese territoriali nel Mar Cinese Mediorientale. Di certo, aggredendola economicamente.

Insomma, la manovra di accerchiamento progressivo della Cina da parte degli Stati Uniti è in atto. Una politica per adesso solo accennata, ma che già basta per rappresentare un azzardo. Soprattutto, se dovesse concretizzarsi l’ipotesi di un’incursione in Corea del Nord, per spianare le difese missilistiche di Pyongyang. Gli americani avrebbero facilmente la meglio sulle difese nordcoreane - che tuttavia vantano un esercito di un oltre milione di soldati attivi e altri sette tra riserve e paramilitari (in Corea del nord la leva obbligatoria dura dieci anni per gli uomini e sei per le donne) - ma le conseguenze di questo gesto sarebbero imprevedibili.

In definitiva, il paese guidato dal giovane e irrequieto Kim Jong-un rappresenta per gli americani solo la testa di ponte per avvicinarsi sempre più al bersaglio principale. Se qualcuno a Washington decidesse davvero di danneggiare la superpotenza avversaria, potrebbe anche pensare a una simile azione di forza.

La forzatura contro Pyongyang permetterebbe a Donald Trump di conseguire un triplo obiettivo: sventare una minaccia concreta al proprio paese, avere una leva da usare come strumento di pressione per intimorire la Repubblica Popolare Cinese e ottenere un prestigio presidenziale che al momento non ha. Per questo, la Corea del Nord rappresenta una notevole spina nel fianco. Anzitutto, però, per la Cina.

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Luciano Tirinnanzi