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Corea del Nord: gli obiettivi di Trump

Sale la tensione con Pyongyang che parla di risposta a un eventuale attacco americano. L'America mostra i muscoli ma punta a una soluzione diplomatica

Donald Trump ha costruito "un circolo vizioso" di tensioni nella penisola coreana, con una politica aggressiva" e "creando problemi" alla Corea del Nord. Per questo Pyongyange è pronta ad andare alla guerra e a usare il suo arsenale nucleare contro gli Usa se necessario.

Lo ha dichiarato il vice ministro degli esteri nord-coreano, Hang Song Ryol in una intervista esclusiva alla Ap, aggiungendo che se le 2provocazioni" di Washington proseguiranno, Pyongyang è pronta a una risposta militare: "Se loro vogliono andremo alla guerra". Ha aggiunto. Il viceministro nord coreano ha definito "spericolate" le manovre militari Usa e ha concluso dicendo che la Corea "ha un potente deterrente nucleare e certamente non resterà con le mani in mano di fronte a un attacco preventivo da parte americana".

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La tensione Corea del nord-Usa dunque aumenta ogni giorno di più. Ma dove vuole arrivare Donald Trump?

Le continue minacce
Sabato 15 aprile in Corea del Nord si celebra il 105esimo anniversario della nascita di Kim Il-sung, il padre fondatore della nazione e “presidente eterno”. Per questa data, secondo gli analisti, il suo imprevedibile nipote Kim Jong-un potrebbe decidere di sfruttare la massima visibilità per dare al mondo una dimostrazione di forza. Con l’occasione, potrebbe spingersi ad esempio a condurre un ennesimo test missilistico-nucleare, visto che ormai la sfida diretta con gli Stati Uniti ha raggiunto il suo apice.

Donald Trump, infatti, in un’impennata di fermezza in politica estera, ha deciso di affrontare una dopo l’altra le crisi internazionali che riguardano anche gli Stati Uniti.

Dopo lo show missilistico in Siria, che ha dato il via a una serie di consultazioni tra i ministri degli esteri del G7 più la Russia per definire una road map credibile sul futuro della regione, il presidente e comandante in capo delle forze armate americane ha inviato nelle acque prospicienti la Corea del Nord quella che lui stesso ha definito una “armada”, in riferimento all’invencible armada, la poderosa flotta di 130 navi che il re di Spagna Filippo II mandò per contrastare l’impero marittimo britannico. Scelta comunque infelice, visto che poi Filippo fu sconfitto dagli inglesi di Elisabetta I.

La flotta americana
Lasciando da parte la storia, oggi nel Pacifico Washington può schierare davvero la più grande flotta al mondo, di gran lunga superiore a tutte le altre marine militari. Basti pensare che la US Navy dispone di ben dieci portaerei - erano undici fino a poco tempo fa e due sono in costruzione - in grado ciascuna di trasportare fino a sessanta aerei da caccia, che corrispondono a quasi il doppio della somma delle altre marine che possiedono una. Tanto per capirsi, la seconda marina in classifica per numero di portaerei ne ha disponibili soltanto due, ed è l’Italia, con la Garibaldi e la Cavour.

Perciò, quando si parla di marina militare americana, dobbiamo capire che è qualcosa di molto più grande e minaccioso dell’invencible armada, perché sarebbe in grado di attaccare cinque continenti contemporaneamente.

In queste ore, Donald Trump ha dato ordine alla portaerei nucleare USS Carl Vinson (la stessa che ha ospitato la segretissima cerimonia funebre per Osama Bin Laden e che è stata persino immortalata nel film Top Gun) di incrociare verso le coste coreane, affiancata da due cacciatorpediniere e un incrociatore. Probabilmente, vi sono anche dei sottomarini e forse altre navi in giro per il Pacifico potrebbero raggiungere la flotta.

Alla Vilson potrebbero accompagnarsi anche parte della flotta giapponese e sudcoreana, alleati di ferro di Washington e molto interessati alla sfida geopolitica del Pacifico, in funzione anti-coreana ma soprattutto anti-cinese.

La telefonata con Xi Jinping
Per parte sua, il presidente cinese Xi Jinping ha telefonato il 12 aprile a Donald Trump per ribadirgli che in Corea del Nord bisogna trovare "una soluzione pacifica". Il che è già un importante successo per l’Amministrazione Trump, che segnala l’apertura reale di un canale di dialogo tra i due, dopo il faccia a faccia avvenuto a Mar-a-Lago, in Florida, proprio mentre il presidente americano ordinava di bombardare la Siria. Se permangono diffidenza e distanze tra i due governi, forse però vi sono i margini per tentare di rasserenare il clima.

Trump destabilizza il Medio Oriente
In ogni caso, la Casa Bianca è tornata protagonista assoluta nella politica internazionale, dopo anni in cui si era defilata per volontà esplicita di Barack Obama. Ma questo non va letto in un’unica direzione, nel senso che non è per forza un segnale positivo, anzi. La destabilizzazione per mano americana del Medio Oriente come del Pacifico è dietro l’angolo. Certo è che lo status quo in entrambe le regioni non promette di meglio.

La Corea del Nord, in particolare, è comprensibilmente percepita come una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti, poiché dal punto di vista americano Pyongyang - al netto della propaganda - potrebbe un giorno risolversi per il “colpo di testa”. Anche se questa possibilità nei fatti è assai remota, la dottrina militare statunitense non prevede di farsi cogliere alla sprovvista e, inoltre, vive da sempre di sfide muscolari.

Il nuovo ordine nel Pacifico
Resta il fatto che la politica estera di questo esecutivo prevede un massiccio attacco (anzitutto commerciale) alla Cina, vero obiettivo finale di Donald Trump.
 
Anche per questo sarà importante seguire i prossimi sviluppi diplomatici nel sudest asiatico, dove il risiko di alleanze e riposizionamenti è appena ricominciato. Non può sfuggire, infatti, che le prime mosse della Casa Bianca siano orientate a lasciarsi definitivamente alle spalle la fallimentare strategia del Pivot to Asia tracciata da Obama: il nuovo presidente ha cancellato il TPP, la partnership transpacifica (morta sul nascere); è in attesa di pesare la fedeltà agli Stati Uniti delle Filippine del controverso presidente Rodrigo Duterte; pensa di cooptare Indonesia e Vietnam per porre un argine economico alla penetrazione cinese in America; è determinato a riportare le fabbriche e il lavoro delocalizzati in Asia nel recinto di casa.

In sintesi, vuole imporre un nuovo ordine nel Pacifico. E, per ottenerlo, potrebbe iniziare a fare pressione su Pechino, magari destabilizzando proprio la Corea del Nord o cavalcando le contese territoriali nel Mar Cinese Mediorientale. Di certo, aggredendola economicamente.

La forzatura contro Pyongyang permetterebbe così a Donald Trump di conseguire un triplo obiettivo

  • sventare una minaccia concreta al proprio paese
  • avere una leva da usare come strumento di pressione per intimorire la Repubblica Popolare Cinese
  • ottenere un prestigio presidenziale che al momento non ha.

Per questo, la Corea del Nord rappresenta una notevole spina nel fianco. Anzitutto, però, per la Cina.

Abbassare i toni
In ogni caso, James Mattis, Segretario alla Difesa, ha dichiarato che l'attuale schieramento di navi al largo delle coste coreane non è legato a uno specifico evento, ma è solo "questione di prudenza e deterrenza". A fargli da eco è Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca, che in proposito ha dichiarato che "non ci sono indizi che la Corea del Nord abbia la capacità nucleare al momento […] minacciare qualcosa che non si possiede non è una reale minaccia".

Ragion per cui, Donald Trump sta forse solo facendo il proprio mestiere, interpretando il ruolo del presidente risoluto e decisionista, che tanto piace al popolo americano (in effetti, dallo strike in Siria il suo indice di gradimento è cresciuto) e di cui qualcuno sentiva nostalgia, soprattutto alla Casa Bianca. Perciò, mentre il presidente “intrattiene il pubblico” alla sua maniera, allo stesso tempo il suo staff starebbe invece lavorando per vie diplomatiche alla ricerca di una soluzione sostenibile e non-militare alle crisi in corso.

Quale delle due, se la Corea o la Siria, abbia la priorità per Trump, è invece un altro discorso. Anche per una superpotenza come gli Stati Uniti, infatti, sarebbe difficile affrontare contemporaneamente due eventi cruciali per la geopolitica. Resta il fatto che Washington ha mosso per prima. E adesso toccherà agli altri adeguarsi. 

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Luciano Tirinnanzi