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Con la Ue serve una voce forte, non grossa

Il sovranismo rischia di diventare un boomerang perché mette in pericolo i più deboli. Tra cui l'Italia

La politica dei pugni sul tavolo ha dei costi già quantificabili, mentre i benefici non si vedono. I mezzi d’informazione hanno dato poco spazio alle parole di Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo che, invece, dovrebbero far riflettere seriamente. “Il ministro Tria ha detto cose che probabilmente andavano dette un mese fa - ha sottolineato Messina - Prima capitalizzavamo 53-54 miliardi ed eravamo la terza banca d’Europa, oggi siamo la quinta a 43 miliardi. Sotto i 33 miliardi la nostra banca diventa contendibile perché i nostri investitori sono internazionali”.

Il sovranismo, così, diventa un boomerang perché mette in pericolo persino gli equilibri proprietari della principale banca italiana.

Quel che dice Messina mette in discussione anche la politica del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, con il ministro dell’economia che rassicura e quelli dell’interno e del lavoro che rilanciano. Un tira e molla pericoloso. Il rischio non riguarda solo l’Italia, perché la tentazione di seguire lo stesso schema è forte anche in Europa.

Emmanuel Macron strappa, Angela Merkel ricuce, Viktor Orbàn vuole inserire il divieto di accoglienza in Costituzione e Sebastian Kurz, il cancelliere austriaco, fa la spola con il gruppo di Visegrad, ormai diventato una sorta di Unione parallela e Bruxelles. Anche qui il prezzo è elevato per tutti (fine di qualsiasi politica comune e probabile disintegrazione), mentre non si intravede all’orizzonte nessun guadagno. A forza di fare la voce grossa, si finisce per restare afoni.

Vedremo come andrà il vertice di domenica cominciato malissimo con una bozza di documento rifiutata dal governo italiano. Soprattutto vedremo se al consiglio europeo che si apre giovedì prossimo prevarranno i poliziotti buoni, ma a forza di strappi e proclami non si va avanti. E per l’Italia è un disastro.

La minicrisi dello spread non ha colpito soltanto la capitalizzazione di banche e imprese, ha già fatto uscire dalle frontiere una quarantina di miliardi di euro: forse sono soggetti esteri (soprattutto fondi) che hanno sospeso o ritirato i loro investimenti, forse non è l’inizio di una vera e propria fuga di capitali italiani, ma proprio mentre la Grecia esce dal suo lungo e nerissimo tunnel lo spettro ellenico incombe sull’Italia.

Cosa fare

Se gridare non ci rende più forti né più credibili, allora che cosa bisogna fare? L’alternativa ovviamente non è mollare la difesa dei nostri interessi, ma bisogna tenere fermo il punto di partenza: gli interessi nazionali si tutelano meglio dentro un quadro internazionale più ampio che fa perno sulla Unione europea, sulla Nato e sull’alleanza con i paesi liberal-democratici dell’occidente. Giuseppe Conte presidente del Consiglio italiano lo dice, tuttavia i suoi poliziotti cattivi lo smentiscono subito dopo cercando un ipotetico asse con i paesi ex comunisti dell’est o persino con la Russia neo-imperiale di Vladimir Putin.

L’Italia è un paese fondatore di quel processo che ha portato all’Unione europea, quindi i nostri primi interlocutori sono Germania, Francia e quel che un tempo si chiamava Benelux, insomma il nucleo originario del quale facciamo parte. Non sono rose e fiori, anzi molti interessi divergono anche nel club dei fondatori.

È normale, quel che conta è affrontarli insieme con spirito di cooperazione, tirando per la giacchetta chiunque sfugga a questo principio base di convivenza civile.

I due problemi: immigrazione e governance

Ma usciamo da astratti discorsi sul metodo. Ci sono due grossi nodi da sciogliere: il primo riguarda la politica dell’immigrazione, l’altro la riforma della governance, a cominciare dall’area euro. Per entrambi occorre applicare il principio della geometria variabile o dell’Europa a più velocità: creare un nocciolo duro che si muove insieme a ritmo più accelerato, gli altri seguiranno.

Sui rifugiati, un primo nucleo è basato su Italia, Spagna, Grecia, Francia e vede al centro il Mediterraneo. La Germania dovrebbe invece essere il punto di riferimento per i paesi che gravitano sull’area balcanica. È vero che per noi l’Austria ha un ruolo chiave, ma bloccare il Brennero sarebbe meno grave se cessassero le tensioni alla frontiera francese.

Tra i quattro paesi mediterranei Italia e Grecia sono stati i più esposti, ormai tutti lo riconoscono, quindi occorre una maggiore cooperazione da parte di Parigi e Madrid basata su una forza marittima comune per il controllo sui mari (e qui l’Italia può far valere la propria esperienza e le ottime prove dimostrate) accompagnata da una distribuzione condivisa dell’accoglienza. Insieme, poi, possono costruire una politica più efficace nei confronti dei paesi africani, a cominciare da quelli mediterranei.

In cambio l’Italia potrebbe offrire un impegno concreto a stabilizzare economicamente l’area euro e l’Unione europea. Qui le ragioni di Roma sono meno forti, realismo vuole che lo riconosciamo e ci comportiamo di conseguenza. I pugni sul tavolo (per così dire) di Matteo Renzi hanno ottenuto maggiore flessibilità sul deficit pubblico, ma non è stata utilizzata per ridurre il debito. Non solo, l’Italia ha sprecato anche i vantaggi arrivati dalla politica monetaria di Mario Draghi.

È essenziale, dunque, che venga confermata nei fatti la linea Tria. Non quella di chi, nel governo e in parlamento, sostiene che il debito è un falso problema e “basta” uscire dall’euro per risolverlo. Il debito pubblico, del resto, è raddoppiato con la lira, una nuova lira non potrebbe che peggiorarlo.

Questa è una premessa fondamentale. Ci sono in campo proposte di riforma, non solo quelle discusse tra Macron e la Merkel, che offrono all’Italia una sponda importante (il bilancio europeo, l’unione bancaria, politiche sociali comuni) e altre che possono diventare una trappola (come i tedeschi interpretano il ruolo del fondo monetario europeo e la possibilità che anche gli stati facciano default). Ma il negoziato è solo all’inizio e, anche in questo caso, vale l’Europa a più velocità.

Il ministro Tria ha messo sul tavolo l’ipotesi di togliere dal calcolo del deficit gli investimenti pubblici produttivi. Lo ha proposto già da tempo Mario Monti, ma proprio la debolezza finanziaria dell’Italia ha impedito di dare gambe alla sua idea. Una Italia avviata sulla via del risanamento delle finanze pubbliche e della crescita, oggi che la mistica dell’austerità è al tramonto, può offrire nuove possibilità. Quel che serve, dunque, non è la voce grossa, ma una voce forte. L’unico modo per averla è dimostrarsi un paese affidabile che tutela i propri interessi e nello stesso tempo l’interesse generale.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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