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C'è una via d'uscita per il caos libico?

Parla Ahmed Safar, ambasciatore in Italia del Governo di Serraj: “Se Haftar vuole un ruolo politico dovrà togliersi l'uniforme”

Tripoli chiama Roma. Nei giorni degli scambi di accuse seguiti all’esplosione di un’autobomba lo scorso 20 gennaio a poche centinaia di metri dall’ambasciata italiana nella capitale libica, è Ahmed Safar, ambasciatore del Governo di Accordo Nazionale di Faiez Serraj in Italia a lanciare un messaggi di distensione al nostro Paese.

Il diplomatico ha incontrato i giornalisti giovedì 26 gennaio nella sede dell’ambasciata libica per la presentazione del progetto Time For Action organizzato in collaborazione con la Camera di Commercio Italo-Libica: un percorso di informazione e formazione destinato agli imprenditori italiani che intendono tornare a fare affari in Libia, con seminari, workshop e progetti pilota, il cui inizio è previsto lunedì 30 gennaio con una prima conferenza in programma alle 14:30 all’Accademia libica in via Cortina d’Ampezzo a Roma.

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Nel corso della conferenza stampa Safar ha fatto il punto sulla crisi libica: dall’attentato di Tripoli alle possibilità di dialogo tra le forze che sostengono Serraj e quelle che invece appoggiano il governo rivale di Tobruk, dal ruolo del generale della Cirenaica Khalifa Haftar al petrolio e ai necessari investimenti esteri che possono permettere al Paese nordafricano di lasciarsi alle spalle l’“economia di guerra” e di far ripartire l’“economia di pace”.
Sull’esplosione a Tripoli, l’ambasciatore evita di commentare le accuse di complicità lanciate dalla RADA (Forze speciali di deterrenza fedeli a Serraj, ndr) nei confronti del generale Haftar.

“L’azione è ancora sotto indagine – ha affermato -. I primi riscontri allontanano la possibilità che possa essersi trattato di un attentato terroristico.

La Procura Generale sta infatti trattando l’azione come un atto criminale. Ciò però non impedisce di sospettare che il momento scelto per compiere l’attentato possa avere delle dimensioni politiche”. Eppure, ha proseguito, “se dovessimo pensare a un atto terroristico nei confronti dell’ambasciata italiana sicuramente la tempistica e il luogo sarebbero stati diversi”. L’ambasciatore non si sbilancia ulteriormente lasciando però intendere che se è vero che qualcuno a Tripoli può non vedere di buon occhio l’appoggio confermato dal nostro governo al premier Serraj, è altrettanto vero che la maggioranza dei libici vuole un riavvicinamento con l’Italia e vede nella riapertura dell’ambasciata l’unica soluzione per ottenere in tempi relativamente brevi il rilascio di un visto per tornare a viaggiare nel nostro Paese.


Possibile un accordo tra Serraj e Haftar?
Sull’avvio di una fase di dialogo tra il Governo di Accordo Nazionale di Serraj e l’esecutivo di Tobruk, Safar si dice possibilista. “Non esiste stabilità basata solo su soluzioni militari – afferma – Oggi molti vedono nel Consiglio Presidenziale guidato da Serraj un organismo non abbastanza forte per controllare il Paese e per tentare di includere nel processo di pacificazione quelle fazioni che sono rimaste fuori dagli accordi di Shikrat del dicembre 2015. Posso assicurare però che nessuno in Libia in questo momento sta cercando una soluzione alternativa a Serraj”. Una versione obiettivamente contestabile, e non solo per le ripetute sortite nei palazzi ministeriali di Tripoli di milizie fedeli a Khalifa Ghwell quanto, soprattutto, per la presenza di una figura militare e politica che sta ottenendo un consenso sempre più ampio a livello internazionale, vale a dire il generale della Cirenaica Khalifa Haftar. “Ma ogni componente dell’esercito – dichiara in proposito Safar – deve sottostare alla volontà del popolo libico. Se vuole avere un ruolo politico Haftar deve togliersi l’uniforme, altrimenti sarebbe un ritorno alla dittatura della quale pensavamo di esserci liberati”.
 
 
 
Il problema delle milizie armate
Sullo stato di insicurezza a Tripoli, così come in altre città e vastissime aree del Paese, Safar ha le idee chiare per venire a capo del problema, anche se al momento appare molto difficile concretizzarle alla luce dell’anarchia che regna sovrana nella capitale. “Bisogna capire chi, come e perché fornisce armi a centinaia di miliziani. Solo creando alternative occupazionali faremo deporre le armi a queste persone. Lo stesso vale per i migranti che attraversano il nostro Paese per andare in Europa: se offriamo loro una situazione economica più stabilizzata, alcuni potrebbero decidere di fermarsi in Libia per periodi di impiego temporanei lunghi e certamente migliorerebbe anche il rispetto dei loro diritti. La Libia ha bisogno di un fondo di stabilizzazione per la ripresa della sua economia. Questa stabilità economica avrà degli effetti positivi sulla sicurezza generale del Paese”.
 
Petrolio e opportunità per l’Italia
Qualcosa si sta già muovendo in tal senso, come indica la ripresa delle esportazioni petrolifere a seguito di un tacito accordo tra Tripoli, la NOC (National Oil Company) e le milizie di Haftar che controllano il bacino della Sirte dove si trovano terminal e giacimenti offshore. “Nell’ultimo anno – spiega Safar – siamo passati da 300mila barili di petrolio al giorno a più di 700mila e contiamo di superare il milione nelle prossime settimane. Questo aumento delle esportazioni ci ha consentito di approvare una nuova finanziaria da 37,5 miliardi di dinari. Servono ulteriori fondi per la distribuzione di acqua e l’erogazione di elettricità. L’Occidente e l’Europa devono tornare a investire: non si può aspettare la stabilità per ottenere sviluppo, le cose devono andare di pari passo”.
 
Concetto di cui è convinto anche Gianfranco Damiano, presidente della Camera di Commercio Italo-Libica. “È necessario un riallineamento dell’Italia al futuro della Libia. Nonostante la crisi prolungata, a parte le piattaforme offshore di ENI già da tempo molte aziende hanno ripreso a lavorare tra Misurata, Bengasi e Tripoli. Rispetto al passato lavoriamo su uno scenario reso molto più complesso dalla presenza di altri Paesi concorrenti e da scelte politiche incerte: c’è stato infatti un momento in cui riconoscevamo il governo di Tobruk ma avevamo l’ambasciata a Tripoli. Sono convinto che l’apertura dell’ambasciata italiana a Tripoli rappresenti un grande segnale di fiducia nei confronti della Libia intera.

Le nostre imprese che hanno dovuto lasciare la Libia in questi ultimi anni sono chiamate ad affrontare diversi problemi: c’è circa un miliardo di euro di crediti che non può essere riscosso, motivo per cui spetta al governo italiano pensare a delle misure di compensazione; occorre sbloccare il rilascio dei visti per far tornare in Italia gli imprenditori libici; occorre formare i nostri imprenditori che intendono investire in Libia e fare lo stesso con i libici che vogliono lavorare con l’Italia; occorre consolidare la nostra rete di alleanze non solo nell’Ovest ma anche in tutto il resto Paese. Ricordiamoci di avere ancora un vantaggio rispetto ai nostri competitor: abbiamo un rapporto non solo di partenariato economico ma anche di profonda amicizia con questo popolo”. È l’ora di tornare a sfruttarlo.

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