Cannabis Canada
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Cannabis Canada

Cronahce dal paese che l'ha la legalizzata e che ora ha i primi grandi problemi

Nell’ottobre 2018, un esercito di millennials canadesi si sono dati da fare sui loro profili Facebook e Instagram per sostituire, nel bianco della bandiera nazionale, la foglia d’acero con la foglia di marijuana. Uno dei tanti modi con cui è stata celebrata l’entrata in vigore del Cannabis Act, la legge federale che permette a un maggiorenne di girare in pubblico con 30 grammi di erba in tasca (l’equivalente di 60 spinelli) e di coltivare 4 piante a casa.

Qualche mese dopo, l’industria della cannabis veniva invitata al prestigioso World Economic Forum di Davos: imprenditori alla guida di aziende dai nomi non di fantasia come Namaste Technology, Heaven’s Stairway, Weekend Unlimited o Alternative Harvest, entravano a pieno titolo nella foto di famiglia delle élite economiche mondiali.

Insomma, la cannabis non è più un tabù - hanno ammesso di averla fumata ben sette presidenti americani (Bill Clinton, senza inalare). Soprattutto, in un Paese quale il Canada che si percepisce come una superpotenza morale, la legalizzazione del suo uso ricreativo è stata vissuta come riconoscimento di un diritto civile, e non solo per il 15 per cento della popolazione che la consuma in modo sistematico.

Il primo ministro Justin Trudeau ne aveva fatto un punto di programma nel 2012, quand’era ancora solo il leader del Partito liberale: «Non sono per la decriminalizzazione della cannabis. Voglio legalizzarla, regolarla e tassarla». Nella narrativa del primo ministro, la fine del proibizionismo serviva principalmente a sottrarre proventi enormi alla criminalità organizzata (3 miliardi di dollari all’anno, secondo alcune stime). Ma anche ad alleggerire il sistema giudiziario e a liberare risorse per la lotta agli oppioidi - fentanyl, in particolare - responsabili di una strage infinita che ha fatto 4 mila morti in Canada nel 2017 (più di 72 mila negli Stati Uniti).

A quasi sei mesi dalla legalizzazione, il Canada - primo Paese del G7 ad aver dato il via libera - si trova a tracciare un primo, difficile bilancio. La marijuana terapeutica è diventata legale nel 2001, quando cioè la Corte Suprema canadese obbligò il governo federale a creare un meccanismo che consentisse a un paziente di accedere alla cannabis come componente costitutivo nel trattamento del dolore. L’80 per cento dei 23 mila studi sugli effetti della cannabis riguardano il suo uso terapeutico, ma come avviene nel caso dell’elettrosmog, i risultati risultano a volte contraddittori.

In assenza di certezze, il Canada ha ora liberalizzato l’uso ricreativo, ma lo ha sottoposto a una pletora di limitazioni e controlli. Il materiale informativo messo online dal governo federale - che ha stanziato 100 milioni di dollari in sei anni col fine di informare il pubblico - illustra senza reticenze i pericoli e i benefici delle due più importanti molecole della cannabis: il Thc, il tetraidrocannabinolo ovvero la componente psicoattiva, calmante o euforizzante, e il Cbd, il cannabidiolo, con le sue proprietà anti-infiammatorie e analgesiche utili nell’uso medicale.

Piccola digressione: la cannabis è una sorta di alter ego della canapa. La tentazione di chiamare in causa Dr. Jekyll e Mr. Hide è forte, ma di fatto siamo di fronte alla stessa pianta, sia pure con un diverso quadro genetico. Nella canapa - fibra, alimento, biocarburante - il Cbd predomina e il Thc è presente in tracce. Invece nella cannabis - terapia, euforia e relax - il Thc è presente in modo più significativo, progressivamente più significativo visto che, dagli anni Ottanta a oggi, ha aumentato la sua concentrazione media dal 3 al 15 per cento, con punte del 30, come effetto della «reingegnerizzazione» genetica della pianta.

Ora, nelle intenzioni dichiarate del governo, la liberalizzazione dell’uso ricreativo serviva soprattutto a ridimensionare, se non a eliminare, un mercato nero da 3 miliardi di dollari nel 2017, equivalente a quello della birra e superiore a quello del tabacco. Un mercato consolidato, con una clientela affezionatata e leale, che ha comprato per anni l’erba da un vicino di casa simpatico o da un ex compagno di classe nel giro giusto.

Il quadro economico di partenza era contenuto nell’istantanea scattata dall’istituto Statistics Canada nel 2017, prima dell’approvazione del Cannabis Act: quasi 5 milioni di canadesi tra i 15 e i 64 anni avevano speso 5,7 miliardi di dollari in cannabis, tra quella terapeutica legale e quella ricreativa illegale. Circa 1.200 dollari a testa. Lo 0,2 per cento del Pil canadese, non poco in tempi di crescita dell’indicatore misurato in decimali.

La coltivazione commerciale della marijuana è un’attività che ha un forte impatto sul territorio. In vista della legalizzazione dell’uso ricreativo, le aziende si sono trovate a dover aumentare la loro capacità produttiva e nella ricerca spasmodica di spazi per coltivare la pianta, si sono rivolti naturalmente verso i terreni a uso agricolo, meno costosi di quelli destinati a impiego industriale.

Non solo: molte aziende agricole si sono riconvertite dalla produzione alimentare a quella della cannabis, privando le comunità locali di risorse alimentari a chilometro zero. In California, per esempio, dove Napa Valley e Sonoma Valley sono zone vinicole di livello mondiale, ci sono 3 mila aziende vinicole e 50 mila fattorie impegnate nella produzione di cannabis. Il problema è che i grandi produttori di essa sono aziende biotech che usano la genomica e fanno confezionamento su larga scala, con processi più di tipo industriale che agricolo, visto che comportano la cementificazione di grandi superfici per costruire le serre e gli impianti tecnologici necessari, dalla illuminazione ai sistemi che devono garantire temperatura e umidità controllata. Insomma, la rivoluzione verde non è poi così verde, dopo tutto.

L’arma principale per competere col mercato clandestino si pensava fosse quella del prezzo, a partire da una sua componente fondamentale, cioè la tassazione. I policy makers canadesi hanno fatto i salti mortali per definire tasse contenute tali da non rendere appetibile il ricorso al mercato nero, ma anche tali da ripagare le risorse da destinare alle forze dell’ordine per far rispettare la legge (nelle stime, 100 milioni di dollari all’anno per cinque anni) e quelle da destinare all’educazione del consumatore.

I dati diffusi da Statistics Canada nel gennaio 2019 hanno permesso di sfatare una delle previsioni della vigilia, visto che dopo la legalizzazione il prezzo della marijuana in generale non solo non è calato, ma è aumentato del 17 per cento, comunque un successo se confrontato col più 80 per cento registrato in California. È anche cresciuta dell’8 per cento la platea dei consumatori, tutte persone che si sono accostate alla cannabis per la prima volta, ricorrendo nel 60 per cento dei casi ai canali legali perchè vedevano un valore aggiunto in un prodotto controllato e sicuro.

I consumatori di vecchia data, invece, hanno preferito continuare a rivolgersi al mercato nero, attratti dal prezzo inferiore (3 dollari in meno al grammo) e tutto sommato soddisfatti dalla qualità del prodotto. Nonostante tutti gli sforzi, il mercato illegale - per il momento - continua a essere predominante, visto che è stato ridimensionato solo del 20 per cento.

Uno degli argomenti forti a favore della legalizzazione era stato poi la creazione di 120 mila nuovi posti di lavoro. Nei fatti, l’industria si è trovata invece a fronteggiare la carenza delle professionalità più sofisticate - esperti di controllo qualità e genetisti - ma anche quella dei lavoratori meno qualificati, alle prese con condizioni di lavoro difficile come quelle di una serra a temperatura e umidità controllata durante la stagione estiva. Clamoroso il caso di Aphria, che nell’agosto del 2018 aveva assunto 50 lavoratori in una delle sue serre industriali. Una settimana dopo, se n’erano dimessi 42.

Con tutte le differenze del caso, qualche secolo dopo l’introduzione dello schiavismo in risposta alle esigenze dell’industria dello zucchero, indispensabile per dolcificare il tè giornaliero per milioni di sudditi dell’impero inglese, il problema si ripresenta e alcune aziende si sono dovute rivolgere a paesi dell’area caraibica e del Centro America per reperire le risorse umane necessarie.

Inventare il nome della professione di chi vende la cannabis in negozio è stato facile: è bastato fondere la parola «bartender» (barista) e il termine «bud» (germoglio) per arrivare a «budtender». Più complicato è definirne i percorsi professionali nella giungla di sigle che offrono certificazioni online e di fronte alla complessità della materia. È un sommelier? È un farmacista? Che cosa può dire al cliente, visto che non può parlare dei benefici del prodotto che vende? Amnistia per molti, ma non per tutti.

La legalizzazione della cannabis ricreativa ha posto anche un problema di equità sostanziale: come trattare i 500 mila canadesi che - per aver fatto uso di marijuana o averla spacciata - erano in prigione o in attesa di un processo, avevano la fedina penale sporca e difficoltà di accesso a un lavoro o a un mutuo? La scelta del governo è molto divisiva: no alla cancellazione automatica del reato, come era invece avvenuto nel 1969 quando finalmente l’omosessualità aveva smesso di essere considerata un crimine. Sì a una procedura che consente a chi era stato colto con meno di 30 grammi di erba prima della legalizzazione di ottenere la cancellazione del reato dalla fedina penale, dopo un’attesa di cinque anni e dietro il pagamento di 600 dollari. Anche questa norma verrà probabilmente rivista, ma la liberalizzazione non ha certo comportato un colpo di spugna sul passato.

E si arriva a certi eccessi che, se non coinvolgessero altri esseri viventi, risulterebbero esilaranti. Per esempio, sono aumentati del 900 per cento i ricoveri nei pronto soccorso veterinari di cani e gatti con i sintomi inequivocabili dello sballo. I cani, in particolare, sono dieci volte più sensibili agli effetti del Thc degli umani e con i loro 300 milioni di recettori olfattivi possono trovare un biscotto alla cannabis al buio.

Ancora: l’esercito canadese ha speso 170 mila dollari per dotarsi di visori per simulare in modo realistico gli effetti della cannabis e addestrare conseguentemente il personale militare. Il datore di lavoro, invece, può vietare l’uso ricreativo della marijuana negli ambienti di lavoro, a maggior ragione se l’attività lavorativa implica l’uso di macchinari. Però deve predisporre spazi e tempi per il lavoratore che fa un uso terapeutico della cannabis. Normativa decisamente complicata.

Secondo un sondaggio del 2015 fatto dalla compagnia assicurativa State Farm Insurance, il 44 per cento degli intervistati non riteneva che la marijuana compromettesse la capacità di guidare, ma che anzi favorisse la concentrazione. Il che probabilmente è parte del problema se il guidatore si concentra, per esempio, sul contachilometri o sul paraurti della macchina davanti, ma non guarda un cartello stradale o un pedone che attraversa sulle strisce.

E poi per quanto tempo precludere la possibilità di mettersi al volante? Gli esperti suggeriscono da due a quattro ore a seconda della concentrazione di Thc. E qui salta fuori un altro problema: la legge sanziona fino a mille dollari di multa una concentrazione di Thc compresa tra 2 e 5 nanogrammi per millilitro di sangue e punisce con la reclusione fino a 10 anni la recidiva. In ogni caso le statistiche sono chiare: l’Insurance Institute for Highway Safety ha previsto un aumento del 3 per cento del numero di incidenti stradali, con 200 morti in più all’anno.

Ugualmente complicato è il rapporto tra cannabis e proprietà immobiliare, e questo anche da prima della liberalizzazione. Un caso classico era quello di un appartamento di ampia metratura, affittato attraverso un agente immobiliare compiacente, e riconvertito a serra per coltivare le piante, con il corollario di finestre oscurate di giorno, aromi inconfondibili e consumi elettrici alle stelle che, dopo mesi, permettevano di individuare le attività illegali di coltivazione «indoor».

BC Hydro, fornitore di energia elettrica in British Columbia, è arrivata a contare 40 mila casi di questo tipo. Senza trascurare l’aumento vertiginoso del numero di incendi causati da impianti elettrici riconfigurati per la coltivazione, ma intrinsecamente pericolosi.

Tutto questo ha finito per innescare una vera guerra legale tra affittuari e padroni di casa. Questi ultimi colpiti dal deprezzamento dell’unità immobiliare, dall’aumento dei costi di assicurazione o dall’esclusione della copertura e dai pesanti costi di bonifica - si parla di 50-100 mila dollari per rimediare ai danni provocati dall’umidità, che fa tanto bene alle pianticelle, ma non a muri e infissi.

I problemi non sono finiti con la legalizzazione: ora la legge permette di coltivare 4 piante, vincolando il coltivatore alla discrezione (niente finestre o zone del giardino con vista dalla strada).

Coltivate a regola d’arte, producono circa 5 chili di cannabis all’anno, valore sul mercato di circa 1.000 dollari al chilo. Questo vuole dire che adesso in giardino hai un controvalore di 5 mila dollari in marijuana, con cui ti sei guadagnato l’attenzione di un vicino che ama rilassarsi la sera fumando erba (e sa che la tua è più verde) o che ha guardato tutte le puntate della serie Breaking Bad e sta cercando risorse per pagare il college al figlio.

Se pensi di tagliare la testa al toro vendendo il prezioso raccolto, stai facendo un errore ancora maggiore, perchè senza una licenza di vendita, rischi fino a 5.000 dollari di multa e 14 anni di prigione. Insomma, se organizzi una festa, la cannabis agli amici la puoi fornire solo gratis.

Nei tre anni che hanno preceduto la legalizzazione in Canada i mercati hanno vissuto momenti di euforia. E questo era vero soprattutto per le aziende canadesi, di maggiori dimensioni rispetto a quelle americane, penalizzate dalla mancanza di una legge federale e dalle conseguenti difficoltà ad accedere al credito bancario. Tilray, la prima a quotarsi al Nasdaq, era salita del 30 per cento dopo l’ok del governo americano all’importazione di cannabis per la ricerca medica. Canopy Growth, Cronos e Aurora non erano da meno, con rally borsistici tra l’80 e il 130 per cento. Nell’agosto del 2018, due mesi prima dell’entrata in vigore del Cannabis Act, la capitalizzazione di Canopy (11,5 miliardi di dollari) era volata più in alto di quella dei grossi nomi dell’industria aeronautica canadese, come Bombardier (11,4 miliardi), Air Canada (7,2 miliardi) e WestJet (2,1 miliardi).

Per il Bloomberg Intelligence Global Cannabis Competitive Peers Index, durante tutto il 2017 la marijuana ha fatto meglio di oro, Bitcoin e del listino di Borsa S&P 500. Se è un meccanismo per alleviare lo stress quello che cerca un fumatore di tabacco, be’ la marijuana ha da offrire molto di più - era il ragionamento - e in più con un minor rischio di dipendenza.

Di più: cosa succede, si chiedevano gli investitori, se un’azienda come la Coca Cola, che vale in Borsa quasi 200 miliardi di dollari, decide di reinventare i soft-drink? Perchè non replicare il successo strepitoso, da tre decenni a questa parte, degli energy drink, un mercato da 12 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti, dove marchi come la californiana Monster (32 miliardi di capitalizzazione) e l’austriaca Red Bull hanno dimostrato cosa si può fare aggiungendo una droga legale come la caffeina a una bevanda gassata. E cosa succede se la Wrigley, che fattura 6 miliardi di dollari all’anno con le gomme da masticare, fa una cosa ovvia come quella di produrre chewing gum alla cannabis?

Che dire inoltre del mercato globale da 1.500 miliardi di dollari delle bevande alcoliche? O dei 120 miliardi di dollari che americani e canadesi spendono in birra ogni anno? Quanta parte di questo mercato è contendibile da prodotti che abbiano la cannabis tra gli ingredienti?

Il risveglio da questo sogno a occhi aperti è stato tuttavia brusco. Ancor prima del lancio della marijuana ricreativa, molte delle aziende avevano dimezzato la loro capitalizzazione di Borsa. Gli analisti di Brightfield hanno rivisto al ribasso, da 8 a 5 miliardi di dollari le previsioni sul mercato canadese al 2021: si sono basati sui 200 milioni di dollari di vendite totali registrate tra ottobre e fine anno, un dato che continua a fare a pugni con i 43 miliardi di dollari di capitalizzazione delle prime dieci aziende canadesi, otto volte le previsioni di fatturato a tutto il 2021.

Gli esperti di settore non hanno ancora risolto l’enigma di ciò che farà da vero traino per l’industria. La cannabis per uso medico, con le sue decine di applicazioni possibili, incluso il sostegno farmacologico durante il fine vita, ha logiche divergenti rispetto a quelle della cannabis per uso ricreativo, visto che lo sballo è l’ultima cosa che interessa chi usa la marijuana contro il dolore cronico, per poter «funzionare» nella vita quotidiana, andare al lavoro, occuparsi della famiglia. Resta un problema di sostenibilità economica, visto che per avere i benefici descritti negli studi scientifici servono da 500 a 1.500 microgrammi di Cbd al giorno, per un costo compreso 30 e 80 dollari. Troppo per la maggior parte dei pazienti. Chi punta sull’uso ricreativo come forza trainante, deve fare i conti con l’attuale sistema di regole, rigide al punto da far pensare che il Cannabis Act non abbia portatato a una vera liberalizzazione. Semmai a una specide di «proibizionismo 2.0».

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