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Brexit, la palude britannica

Sedici mesi dopo la decisione di lasciare l'Unione europea, il Regno Unito è nei guai: politici, economici e diplomatici

È la Brexit che gli inglesi del Leave non si aspettavano a 16 mesi dal referendum, il Regno Unito si ritrova ancora nella prigione burocratica europea. Non solo. Il primo ministro Theresa May è seduto su una bomba che non sa come disinnescare: qualunque filo tagli, potrebbe non salvarsi.

Per non parlare degli affari: prima del referendum, l'economia britannica era la più dinamica dei Paesi del G7. Quest'anno è la più lenta: nel secondo trimestre del 2017 la crescita è stata dello 0,3 per cento, metà della media dell'Eurozona, peggio persino dell'Italia.

Se c'è una parola che economisti e mercati detestano è "incertezza". Le brutte notizie si possono gestire, i problemi si possono affrontare. I dubbi, i punti interrogativi, gli scenari imprevedibili creano invece un senso di panico anche nel più razionale degli analisti.

Il rischio dello stop ai negoziati

L'incertezza regna in Gran Bretagna: ha dominato dal momento in cui il risultato del referendum è stato annunciato il 24 giugno 2016 e, invece di affievolirsi, ora è più pervasiva che mai. Dopo 44 anni di adesione, la prospettiva di un'uscita dall'Unione europea avrebbe creato incertezza comunque.

Ad aggravare la situazione, però, sono ora lo stallo nei negoziati tra Londra e Bruxelles e il rischio sempre più concreto di un fallimento delle trattative. Stallo che porterebbe a un'uscita senza accordo: un vero e proprio salto nel buio per il Regno Unito.

In questo contesto non sorprende che l'economia britannica stia accusando il colpo. Le cifre parlano chiaro. Il 10 ottobre il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha rivisto al rialzo le previsioni di crescita di tutti i Paesi avanzati. La Gran Bretagna rappresenta l'unica eccezione, con la crescita 2017 rivista al ribasso. Quanto al medio termine, le prospettive per l'economia sono "altamente incerte".

Impasse politico

Anche le prospettive politiche sono incerte. Il 10 ottobre, Theresa May è saltata in fretta e furia su un aereo diretto a Bruxelles dopo aver telefonato alla collega tedesca Angela Merkel, chiedendole di aiutarla a portare le trattative fuori dall'impasse.

Downing Street ha fatto sapere che l'incontro era già in calendario, di fatto però non era mai stato reso pubblico. La verità è che i vertici europei non si fidano di May e del suo governo, ormai dilaniato da inutili baruffe. Sul fronte interno, Theresa ha perso il controllo proprio perché non riescea imporsi a Bruxelles.

Arrogante e priva di empatia a casa, remissiva e incerta con l'Europa, finora è riuscita a farsi approvare dalle Camere solo una bozza della legislazione post Brexit, già sommersa da 300 emendamenti e 54 nuove clausole, che rischia di venir vanificata.

Spiega il corrispondente parlamentare della BbcMark D'Arcy: "La May nel suo discorso di Firenze il 22 settembre ha proposto un periodo di transizione di due anni, ma il punto cruciale è: che cosa succederà se la transizione non ci sarà?".

Nel frattempo, lotta per la sopravvivenza in un nido di vipere. Mentre parlava a Firenze, Boris Johnson, il ministro degli Esteri meno diplomatico della storia, pubblicava un manifesto sulla Brexit che contraddiceva ogni sua parola.

E il tesoriere Philip Hammond, da sempre a favore di una soft Brexit, quando la May è tornata al vecchio mantra "meglio nessun accordo che un brutto accordo", ha detto che "nel budget i soldi per prepararsi a quest'eventualità verranno stanziati all'ultimo minuto" per rispetto verso i contribuenti.

I suoi pochi supporter rimasti le consigliano un bel rimpasto per disfarsi dei nemici e attingere a giovani risorse pro-Brexit. Intanto, i sostenitori di Brexit continuano a ostentare ottimismo. Lo giustificano sottolineando che gli scenari apocalittici dipinti dal fronte pro-Ue non si sono verificati. L'economia britannica non è crollata subito dopo il referendum, come alcuni temevano. Anzi, ha dimostrato una inattesa vitalità.

La sterlina in picchiata

L'unica reazione drammatica è stata quella dei mercati valutari: la sterlina ha iniziato la sua traiettoria discendente pochi secondi dopo l'annuncio del risultato del referendum, il 24 giugno. Da allora ha perso circa il 20 per cento contro il dollaro e l'euro.

Le Cassandre tra gli economisti, però, avevano sempre previsto che i danni all'economia sarebbero stati visibili solo con il passare del tempo. E così è stato: gli effetti inevitabili dell'indebolimento della sterlina si sono fatti sentire solo negli ultimi mesi. L'inflazione è schizzata al 2,9 per cento e si prevede superi presto il 3 per cento.

Nonostante la sterlina debole, le esportazioni non volano: il deficit commerciale britannico in agosto ha raggiunto la cifra record di 14,2 miliardi di sterline. L'aumento dei prezzi ha avuto un effetto raggelante sui consumi. I salari non tengono il passo con l'inflazione, con il risultato che il potere d'acquisto è crollato. Quindi la fiducia dei consumatori, motore della crescita, è calata di pari passo con il loro tenore di vita.

I risparmi sono ai minimi, l'indebitamento delle famiglie ai massimi. La Banca d'Inghilterra (BoE) ha espresso preoccupazione per la situazione esplosiva. Situazione che la BoE potrebbe aggravare se per la prima volta da un decennio, come accennato dal governatore Mark Carney, interverrà a breve alzando i tassi, che sono al minimo storico dello 0,25 per cento.

Diverse voci, dall'agenzia di rating Standard&Poor's alle Camere di commercio britanniche, hanno lanciato l'allarme: l'economia è troppo debole per tollerare un aumento dei tassi. "Le famiglie devono affrontare i venti contrari dell'inflazione e dell'incertezza su Brexit" spiega Chris Hare, economista di Hsbc a Londra. "Per questo riteniamo che per l'economia il peggio debba ancora venire".

di Nicol Degli Innocenti ed Enrica Orsini - da Londra

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