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Africa: perché l'Onu deve cambiare le missioni di pace

Un quadro al momento fallimentare impone al neo-segretario Antonio Guterres di rivedere l'azione delle Nazioni Unite in diversi Paesi

Per LookOut News

Migliaia di caschi blu e otto miliardi di euro investiti in media ogni anno per le missioni di pace non stanno bastando alle Nazioni Unite per porre un freno a guerre e violenze in Africa. Invertire la tendenza è uno dei primi compiti di cui dovrà farsi carico il nuovo segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.

Sulla carta, a Guteress non manca il background di competenze ed esperienze per affrontare in modo incisivo la questione africana. A capo dell’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, tra il 2005 e il 2015, l’ex primo ministro portoghese conosce bene le crisi che stanno mettendo a ferro e fuoco il continente africano. Spetta a lui segnare il passo rispetto al mandato poco risolutivo del suo predecessore Ban Ki-Moon e fare in modo che decine di Paesi non finiscano nell’indice dei Failed States (“Stati Falliti”), risucchiati da conflitti interetnici e interreligiosi, terrorismo jihadista o lotte fratricide per il potere.

Sud Sudan
Il caso del Sud Sudan, il più giovane Stato del mondo nato nel 2011 dalla separazione dal Sudan, è la tragica testimonianza dell’incapacità dell’Onu di portare la pace in un Paese che è in guerra dalla fine del 2013. Gli accordi tra il presidente Salva Kiir e il suo rivale Riek Machar, rappresentanti delle due etnie maggioritarie del Paese, i Nuer e i Dinka, non hanno portato ancora oggi a una reale risoluzione del conflitto.

Nel caos che regna sovrano da oltre tre anni, la missione Onu in Sud Sudan (UNMISS, United Nations Mission in South Sudan) è finita più volte nel mirino delle critiche. Un rapporto di Small Arms Survey, gruppo di ricerca con sede a Ginevra, ha accusato la missione di aver fornito armi ai ribelli del Sudan People’s Liberation Movement-in-Opposition (SPLM-IO) guidato da Riek Machar nell’area settentrionale di Bentiu nel 2013. Armi con cui sarebbero stati compiuti massacri di civili.

Altre accuse sono piovute sulla missione nel luglio del 2016, quando nei giorni degli scontri tra forze governative e ribelli che hanno causato oltre 300 morti e migliaia di sfollati nella capitale Juba, i caschi blu non sono riusciti a trarre in salvo dalla mattanza molti civili ed evitare che donne, ragazzi e persino operatori umanitari subissero abusi sessuali.

Nel febbraio del 2016, un altro bagno di sangue c’era stato nella città del nord-ovest di Malakal, dove uomini armati avevano ucciso più di 30 sfollati ferendone altri 120. Il tutto in un’area sotto protezione delle Nazioni Unite.

Repubblica Centrafricana
Anche in Repubblica Centrafricana la missione delle Nazioni Unite MINUSCA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic) è stata accusata in più occasioni, nonché messa al centro di violente manifestazioni di protesta. Emblematico, tra gli ultimi episodi verificatisi, quello dell’uccisione di oltre 75 persone, tra cui molti civili, nel nord del Paese in un’escalation di violenze nel settembre del 2016.

A puntare il dito contro la missione MINUSCA è stato recentemente anche il ministro degli Interni della Repubblica Centrafricana, Jean-Serge Bokassa, il quale ha dichiarato che i caschi blu, in particolare il contingente pakistano di stanza a Kaga-Bandoro, avrebbero distribuito armi a milizie ribelli che contrastano il governo di Bangui.

Repubblica Democratica del Congo
Manifestazioni contro l’Onu si sono verificate anche nella Repubblica Democratica del Congo dove opera la missione di pace MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo). Le proteste si sono concentrate soprattutto nelle regioni orientali del Nord Kivu, del Sud Kivu e del Katanga, aree in cui nel silenzio dei media internazionali si sta consumando un massacro di civili da parte di gruppi armati avversi al governo centrale di Kinshasa, guidato dal 2001 dal presidente Joseph Kabila.

Charles Bambara, portavoce della MONUSCO, ha provato a difendere i risultati finora raggiunti dalla missione. "Questo Paese", ha affermato alla Bbc, "è stato diviso in tre: un gruppo armato controllava la zona di Goma, un altro Kisangani e un altro ancora la capitale Kinshasa e l’ovest. Quando la missione è stata istituita (nel 2000, ndr) l’obiettivo era riunire il Paese. Lo abbiamo fatto con l’appoggio delle forze armate regolari. Ma adesso abbiamo bisogno del sostegno della comunità internazionale. Ci sono probabilmente 40 o 50 gruppi armati presenti nel Paese, che è grande quanto l’Europa occidentale, per cui non possiamo essere ovunque”.

Né disciplina né punizioni
A pesare in negativo sulle missioni di pace dell’Onu in Africa sono stati fattori riscontrati sia da inchieste condotte sia internamente dalle Nazioni Unite che da organizzazioni esterne. Il primo tra questi fattori è la mancanza di disciplina nelle truppe. Da un’inchiesta interna è emerso, ad esempio, che caschi blu francesi operativi in Repubblica Centrafricana tra il 2013 e il 2015 hanno compiuto atti di violenza sessuale nei confronti di donne e minori offrendo loro in cambio cibo e vestiario.

A questi episodi spesso non seguono però delle punizioni adeguate. Il giudizio sulla condotta dei soldati impegnati in missioni di pace Onu spetta infatti al Paese a cui appartengono. In molti casi capita che gli Stati coinvolti evitino di condurre in maniera decisa inchieste di questo genere per evitare di subire dei ritorni di immagine negativi.

Quali soluzioni?
Le soluzioni per risolvere alla radice problemi di questo tipo esitono. Secondo Gustavo de Carvalho, ricercatore dell’ISS Africa (Institute for Security Studies) citato sempre dalla Bbc, per conquistare la fiducia delle popolazioni delle aree in cui intervengono le missioni di pace dell’Onu, si dovrebbero anzitutto imporre a ogni Stato membro il rispetto di standard di trasparenza nella selezione delle Unità da inviare in missione, attraverso una serie di ispezioni che consentano di verificarne l’idoneità al compito assegnato.

In secondo luogo, l’Onu deve mostrare maggiore fermezza nei confronti di quei governi che non favoriscono o addirittura ostacolano lo sviluppo di processi politici democratici. Se le Nazioni Unite si mostrano deboli in tal senso, è inevitabile che crisi politiche sfocino in conflitti tra fazioni opposte. Un banco di prova importante nelle prossime settimane sarà la Repubblica Democratica del Congo, dove il presidente Joseph Kabila al momento non sembra disposto a farsi da parte nonostante sia scaduto il suo mandato.

È fondamentale, inoltre, che soprattutto nelle aree più critiche l’Onu demandi il compito di gestire le crisi alle forze regionali limitandosi a sostenere finanziariamente e logisticamente le missioni e a monitorarle costantemente. Si tratta di un passaggio di consegne che nasconde molte criticità soprattutto sul breve-medio periodo - vedi la deficitaria gestione della crisi somala da parte dell’Unione Africana con la missione AMISOM (African Union Mission to Somalia) - ma necessario se la comunità internazionale intenderà realmente affidare un giorno ai Paesi africani il futuro dell’Africa.



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Rocco Bellantone