Il Pd ha scelto il suo "non" leader: Epifani
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Il Pd ha scelto il suo "non" leader: Epifani

L'ex segretario della Cgil non copre i problemi e le correnti di un partito che rischia la scissione

Alla fine tutti (o quasi) d’accordo sul nuovo segretario del Pd, Guglielmo Epifani. Perché è più facile trovare l’accordo su un non-leader invece che su un leader. Il non-leader Epifani appartiene alla tradizione della sinistra elegante e navigata, coi suoi 63 anni otto dei quali passati a guidare la Cgil (impresa non da poco). Modi signorile e scelta impeccabile della cravatta. Figura apparentemente amabile ma non trascinante, socialista storico mai stato comunista, indicato da alcuni come “reggente” in realtà segretario a tutto tondo con velleità di rimanere (forse anche nelle intenzioni dell’ormai “impresentabile” ma tuttora potente ex segretario Pier Luigi Bersani).

Epifani non fa ombra, per il momento, ai papabili candidati alla segreteria nel Congresso di ottobre. Ma se il Pd continuerà a preferire un non-leader a un leader della sinistra troppo avanzato (vedi Renzi o lo stesso Letta), il buon Epifani ha qualche chance di spuntarla. È il tipico ex capo sindacale che si pensiona “salendo” in politica. Come Franco Marini, come Sergio Cofferati, come Bruno Trentin, come Ottaviano del Turco, come Sergio D’Antoni, come Savino Pezzotta... Tutti diventati governatori, sindaci e parlamentari. Un po’ triste questa deriva del sindacalista che per inerzia si spiaggia nella politica (e nel caso di Epifani emerge d’incanto dal book di risorse nobili in virtù dei galloni confederali), vecchia gloria che si presta come badante della masnada divisa, rancorosa e senza bussola di un Pd (ex Pci-Pds-Ds) in caduta libera nei sondaggi.  

E dire che il Pd un leader ce l’avrebbe e si chiama Matteo Renzi, che per gradimento e popolarità batte tutti. Ma sta là, con le ali tarpate, diverso dagli altri anche per il modo di vestire, per il linguaggio, per le scenografie che lo circondano. E per il modo di pensare lontano dallo stile Botteghe Oscure o parrocchia catto-comunista. Un vero post-antiberlusconiano.  

E c’è Enrico Letta, il “premier per caso”, che però è persona seria, capace, giovane. Un democristiano (con tutto il rispetto) che ieri ha snocciolato una battuta fin troppo riuscita: “Questo non è il mio governo ideale, tanto non lo è che forse neppure il presidente del Consiglio è il mio presidente ideale”. Cioè se stesso. Ecco, questa è l’Italia. Un paese nel quale il partito di maggioranza relativa che esprime il premier prende le distanze dal suo stesso esecutivo (premier compreso). Un paese nel quale è il leader del partito concorrente, Silvio Berlusconi, formalmente minoritario seppure in testa nei sondaggi, a rivendicare i risultati e il buon operato dell’esecutivo a cui partecipa, mentre il partito del premier dichiara il proprio disagio.

Nel frattempo, per puntellare il governo e proiettarsi senza ulteriori perdite (morti e feriti) avanti fino al bagno di sangue del Congresso d’autunno, il Pd si affida a un ex leader sindacale senza alcuna reale militanza di prima linea nel partito e tiene invece nel freezer il suo nome di maggior spicco, Renzi. Ma il ghiaccio può bruciare anche lui. Nel Pd si profila in autunno la resa dei conti fra tre candidati alla segreteria e un quarto incomodo: Matteo Renzi, Enrico Letta e Pippo Civati (rottamatore signornò sostenuto dalla base di OccupyPd e dalla sinistra-sinistra), più il “quarto”, Epifani.

Con lo spettro della scissione che incombe.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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