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Elezioni in Siria: la strategia di Assad e la confusione dell’Occidente

Il presidente siriano ha ancora in mano le carte per obbligare i suoi oppositori e la comunità internazionale a trattare con lui

Per Lookout news

Bashar Al Assad l’aveva promesso all’indomani della firma della tregua del 27 febbraio: “entro aprile si terranno in Siria le elezioni parlamentari”. Nonostante gli inviti alla prudenza provenienti da Mosca, che avrebbe preferito procrastinare il voto per proseguire nella duplice strategia politico-militare del dialogo con l’opposizione democratica al regime e di lotta dura sul terreno contro le truppe del Califfato e dei jihadisti di Jabhat Al Nusra, il 13 aprile Assad ha tentato il colpo politico delle elezioni per tentare di dimostrare di avere il sostegno della maggioranza della popolazione siriana.

 Sotto questo aspetto si è trattato di un sogno irrealizzabile. Secondo le stime delle Nazioni Unite, infatti, circa 5 milioni di siriani (su un totale di 22 milioni di abitanti) hanno abbandonato il Paese negli ultimi quattro anni per fuggire dalla guerra civile. Le forze militari governative, nonostante il successo delle recenti offensive appoggiate dall’aviazione russa che hanno fra l’altro portato alla liberazione – di alto valore simbolico – della città “martire” di Palmira, controllano appena un terzo del Paese. Ne deriva che i 250 membri del nuovo parlamento non potranno certamente essere considerati rappresentativi della maggioranza dei siriani.

Il governo di Assad, incurante delle critiche americane ed europee, ha comunque tirato dritto, sostenendo che elezioni si dovevano tenere per “rispetto della costituzione”.

 

Siria: elezioni surreali in un Paese in guerra

Le reazioni di ONU, USA, Francia e GB
Nella stessa giornata del 13 aprile l’inviato dell’ONU, Staffan De Mistura, aveva convocato a Ginevra tutte le parti in conflitto per una nuova tornata dei colloqui di pace. Ma la delegazione governativa siriana ha disertato la seduta sostenendo di “voler attendere l’esito delle elezioni” e ha annunciato che tornerà al tavolo negoziale soltanto venerdì 15 aprile.

 De Mistura ha evitato di fare commenti polemici sulle elezioni e, in maniera molto diplomatica, si è limitato a dire che i circoli ufficiali di “Mosca, Damasco, Teheran e Amman appoggiano l’idea di discutere delle possibili vie per una transizione politica ordinata in Siria”, ma che è “importante mantenere in piedi la tregua che è stata turbata da incidenti seri ma non da ‘un incendio del bosco’”.

 Il segretario americano John Kerry, molto prudentemente, ha anche lui evitato commenti polemici limitandosi a un appello a tutte le parti in conflitto ad aderire al piano per la “cessazione delle ostilità sotto gli auspici delle Nazioni Unite”.

 Commenti furenti sono venuti dai portavoce di due Paesi che non sono impegnati direttamente nelle vicende siriane, né sul piano diplomatico né sul terreno militare. Francesi e inglesi, infatti, hanno seccamente definito, usando formule molto simili, le elezioni siriane “una farsa”.

La posizione di Mosca
Molto realisticamente, Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, ha sostenuto che “si capisce che una nuova Costituzione dovrà emergere dal processo di transizione politica (in Siria, ndr) sulle cui basi, a breve termine, si dovranno tenere nuove elezioni. Tuttavia, prima che questo accada, per evitare un vuoto di potere, è necessario evitare ogni vuoto di legalità o di inadeguatezza giuridica dell’esecutivo”. Per Mosca, quindi, un colpo al cerchio e uno alla botte: elezioni “semi legali” ma necessarie per dare al regime di Assad una parvenza di legalità.

 Quali che siano i progressi della diplomazia o quelli militari sul terreno, comunque Assad, dato per spacciato da quattro anni, continua a mantenersi saldo al potere, anche se governa su un terzo appena del territorio siriano e sembra continuare ad avere in mano carte ancora sufficienti per obbligare i suoi oppositori, in patria e all’estero, a trattare con lui sui destini futuri di un Paese che si è disintegrato anche per la mancanza di una strategia chiara da parte della diplomazia occidentale, e americana in particolare, che fin dall’inizio dei disordini in Siria si è comportata con faciloneria e superficialità nel tentativo, incomprensibile e politicamente suicida, di ripetere gli stessi errori compiuti in Iraq e in Libia, quest’ultima definita icasticamente da Barack Obama “un casino”.

I combattimenti ad Aleppo
Intanto nell’area di Aleppo si continua a combattere. Da domenica 10 aprile i morti tra soldati governativi da una parte e jihadisti di Jabhat Al Nusra e ribelli siriani dall’altra sarebbero oltre 100. Gli scontri si stanno concentrando soprattutto intorno alle località di Al-Eis e Khan Tuman, a sud di Aleppo. Si tratta di un’area importante sul piano strategico poiché situata nei pressi dell’autostrada che collega Damasco ad Aleppo.

Altri combattimenti sono in corso per il controllo delle località a maggioranza sciita di Fuaa e Kefraya nella provincia di Idlib, assediate dalle milizie dei ribelli siriani forze di opposizione. Qui a sostegno del regime starebbero combattendo miliziani provenienti da Libano, Iraq, Iran e Afghanistan.

Elezioni surreali di un Paese in guerra

LOUAI BESHARA/AFP/Getty Images
Immagini delle elezioni in Siria del 13 aprile 2016

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Alfredo Mantici