Il nuovo Egitto postislamista guarda a Mosca
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Il nuovo Egitto postislamista guarda a Mosca

Mentre Morsi è al tribunale al Cairo, la riforma della Costituzione e la gestione della sicurezza tormentano i militari, che ora guardano all’Arabia Saudita e alla Russia con crescente interesse

Mentre stamani l’ex presidente Mohamed Morsi è atteso al tribunale del Cairo per rispondere delle accuse di “incitamento all’omicidio”, in questi giorni il dibattito politico egiziano è focalizzato sul processo di revisione dell’ultima Carta costituzionale, a forte connotazione islamica poiché condizionata dalle scelte politiche espressione dei Fratelli Musulmani.

Il testo sinora in vigore - al netto della sua sospensione in favore della legge marziale dopo il golpe dei militari - era stato introdotto nel 2012, ossia quando i Fratelli Musulmani avevano trovato nella figura del presidente Morsi il loro rappresentante-chiave per il controllo del governo e il portavoce dell’introduzione progressiva della legge coranica in Egitto. Ma le cose sono cambiate significativamente e, dopo la destituzione di Morsi ad opera dell’esercito guidato dal generale Al Sisi, il dibattito può oggi riprendere.

Dunque, a breve la sventurata Costituzione imposta forzatamente da Morsi e del tutto invisa al popolo moderato d’Egitto - in quanto prevedeva la “libertà di espressione per le tre religioni abramitiche” - cambierà significativamente: la maggioranza dei membri della Commissione incaricata di presentare al presidente Adly Mansour un pacchetto di riforme, ha già votato a favore della revisione degli articoli-simbolo,  ovvero quelli che si concentrano sulla libertà religiosa. L’impegno della Commissione è di estendere questa libertà a qualsiasi religione.

(Lookout News)

Come ha sottolineato anche il portavoce della Commissione, Mohamed Salmawy, tale decisione sottintende anche la soppressione del controverso articolo 219, che indica la Sharia quale “principio fondamentale della giurisprudenza islamica nelle scuole di pensiero sunnite”. Un passaggio che adesso - grazie alla revisione in corso - verrà automaticamente eliminato, dando così ragione alle minoranze islamiche non sunnite che da mesi ne denunciano il carattere discriminatorio.

 

Il pericolo del Sinai e l’intelligence russa

All’ombra del dibattito politico, intanto, le piazze ribollono e il livello di sicurezza nel Paese non può certo dirsi tornato ai livelli pre-crisi: non si arresta, infatti, il muro contro muro fra le autorità e il fronte islamista, le cui ondate di protesta proseguono nelle piazze, in strada e nelle università (in primis quella di Al Azhar, al Cairo). Solo il 30 ottobre, si sono registrate le ultime proteste scaturite dalla notizia dell’arresto di Essam El Erian, esponente di primo piano della Fratellanza Musulmana e numero due del partito Libertà e Giustizia.

 

Ma a preoccupare i militari che controllano l’Egitto non sono tanto le manifestazioni di piazza - che, in ogni caso, possono ritenersi sotto controllo - quanto piuttosto gli episodi di natura terroristica che scuotono la regione del Sinai e che sembrano tesi a decimare il numero di agenti di polizia preposti al controllo della penisola al confine con Israele.

In questa regione, infatti, si concentrano le anime eversive del Paese e le zone desertiche appaiono ormai incontrollabile. Il che non è accettabile per il governo e, anche per tale ragione, l’esercito egiziano si starebbe spingendo a compiere una mossa ardita: secondo l’intelligence israeliana, il governo starebbe cercando di concretizzare una seria partnership militare con la Russia, anche in ragione del congelamento degli aiuti economici da parte degli Stati Uniti.

 

Pare, infatti, che il 28 ottobre il generale Vjacheslav Kondrashov, vicecomandante del servizio d’intelligence militare russo (il GRU, Direttorato principale per l'informazione), si sarebbe recato in gran segreto al Cairo, seguito da una folta delegazione russa.

Il ruolo dei sauditi

La mossa di includere la Russia nella tutela di aree sensibili in Egitto sarebbe stata mediata nientemeno che dall’Arabia Saudita, Paese che più di ogni altro è alla ricerca di stabilità e desidera il controllo diretto non solo della Penisola Araba ma di tutto il Medio Oriente.

I sauditi, negli ultimi mesi, starebbero perciò attuando una politica di progressivo distacco nei confronti dell’amico americano, e per due ragioni principali: sono delusi da Washington per la mala gestione dell’affaire siriano, dove ha prevalso una prudenza eccessiva che ha poi portato allo stallo attuale e all’inconsistenza di una politica efficace per il futuro equilibrio regionale; sono altresì orientati a rinegoziare le commesse militari americane, ritenute insoddisfacenti, e sostituirle con più vantaggiose offerte.

I sauditi, dunque, oggi punterebbero ad aumentare gradualmente la distanza politica e diplomatica dell’Egitto verso gli Stati Uniti, per subentrare direttamente - insieme a nuovi partner - e colmare così il vuoto lasciato da un’America sempre meno interessata o capace a gestire la crisi in Medio Oriente. Anche per questo, i concorrenti russi sono da tempo alla finestra, e già pronti a investire nella regione, per scippare agli Stati Uniti il controllo del Mediterraneo e costituirsi quali nuovi “protettori” dei Paesi lungo tutta la Mezzaluna Fertile e oltre.

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Luciano Tirinnanzi