Una bufala chiamata redditometro
Economia

Una bufala chiamata redditometro

L’onere della prova a carico del contribuente, la retroattività, le spese in nero degli evasori: ecco come un docente di diritto tributario smonta l’ultima trovata per scovare chi non paga le tasse

Il nuovo redditometro è un «suppostone demagogico»: a dirlo non è un grillino urlante o un pensionato in coda al supermercato, ma Giuseppe Marino, compassato docente della facoltà di giurisprudenza della Statale di Milano, nonché noto commercialista. L’origine napoletana gioca un ruolo nell’uso di questo linguaggio colorito, ma dà la misura dello sconforto di chi studia da anni il sistema fiscale italiano e non vede una via d’uscita a un problema ormai endemico. «Il punto è che lo Stato è convinto che gli italiani siano una massa di evasori» ammette desolato Marino nel suo studio nel cuore di Milano «mentre i contribuenti sono convinti che lo Stato sia un’insaziabile sanguisuga». Anche perché lo Stato, non essendo capace di colpire veramente l’evasione, va sempre a mettere le mani nelle tasche dei soliti noti, cioè quelli che già pagano le tasse. Ma perché il nuovo redditometro, operativo con la circolare dell’Agenzia delle entrate del luglio scorso grazie alla quale sono partite 35 mila lettere ai contribuenti che nel 2009 hanno speso il 20 per cento in più del reddito dichiarato, serve a poco o nulla?

«È difficile parlare di efficacia del redditometro come strumento di contrasto all’evasione» dice Marino «perché fare 35 mila controlli su 5 milioni di partite Iva e 42 milioni di contribuenti vuol dire non andare da nessuna parte. È come usare un bicchiere per svuotare il mare». Per Marino si tratta di «una manovra di maquillage demagogico pubblicitario. Di sicuro non è uno strumento efficace, perché lo Stato dovrebbe essere in grado di fare le pulci almeno ai 5 milioni di partite Iva che ci sono in Italia, e mi pare difficile». L’unico effetto positivo «è che il contribuente medio ora dovrà cominciare a tarare il livello di spesa sui suoi redditi», come in parte avviene con gli studi di settore. Un effetto che però riguarda il futuro: «Ora so che, se spendo più del 20 per cento del mio reddito, divento oggetto di attenzione da parte dell’amministrazione fiscale».

Questo discorso vale per chi spende in maniera legale, ma può preoccupare chi è già un evasore? E così si arriva al secondo punto di contestazione.

Le richieste di chiarimento del redditometro riguardano spese in chiaro, però chi incassa in nero difficilmente spende con procedure tracciabili. 
«L’Italia ha una delle economie sommerse più importanti del mondo» osserva Marino, ricordando che «si parla di 120-130 miliardi di euro di imposta evasa, che corrisponde ad almeno 240 miliardi di pil sommerso, cioè di ricchezza non dichiarata». È facile quindi presumere che l’evasore, abituato a guadagnare e a spendere in nero, sarà del tutto indifferente al redditometro. Sono oggetto di attenzione solo se spendo il 20 per cento in più di quello che dichiaro, ma se non dichiaro nulla? Secondo Marino «la situazione cambierebbe se divenisse obbligatorio l’uso della carta di credito per certe spese, perché allora ci sarebbero regole più chiare da seguire. I commercialisti, e i contribuenti che si fanno la dichiarazione dei redditi da soli, dovrebbero aver chiaro che, a fronte di un tot di spesa, non si potrebbe fare a meno di dichiarare un certo reddito». Marino quindi è convinto che «in futuro si può immaginare una certa lievitazione delle dichiarazioni». Ma il fisco può chiedere al contribuente di giustificare le sue spese anche per gli anni 2009, 2010 e 2011, che in alcuni casi può diventare quella che i giuristi chiamano una «diabolica probatio».

«La vergogna di scaricare sul contribuente l’onere della prova è aggravata dalla retroattività, che consente allo Stato di chiedere la giustificazione di spese fatte negli anni passati» tuona il docente di diritto tributario. «Chi me lo ha detto nel 2009 di conservare la fattura della riparazione della mia auto? Quella spesa oggi è finita nel centralone dell’anagrafe tributaria e io subisco una doppia iniquità: inversione dell’onere della prova ed effetto retroattivo. Per il futuro sono stato avvisato e mi comporterò di conseguenza, conservando tutte le ricevute possibili, anche se magari ho strappato pure gli scontrini del 2012, visto che il decreto di attuazione è stato varato il 24 dicembre» continua Marino. «Sarebbe stato più giusto dire: sappiate che da domani sarà così. Invece, proprio sulla base di quel rapporto di sfiducia che lega Stato e cittadini, ti devono sempre propinare una suppostona retroattiva».

Regola sempre valida per il contribuente, mai per lo Stato. «Capiscono che bisogna ridurre la tassa di possesso delle imbarcazioni introdotta dal governo Monti, perché il pil del settore nautico è crollato da 5 a 2,5 miliardi? Bene, dal 1° giugno la tassa è dimezzata, ma lo comunicano il 31 maggio, ultimo giorno utile per pagarla. Quindi, quando riducono la tassa, il giorno dopo è scaduto il termine per pagarla. Intanto la nautica è andata a picco e quelli che avevano già pagato non possono vantare un credito. Alla fine ci guadagnano i furbetti. L’evasore che non ha pagato paga all’ultimo momento». Anche perché, siamo certi di poter giurare sull’efficienza dei controlli?

La presunta efficienza del sistema di controllo, dal quale nascono le incongruenze tra reddito e spese che fanno scattare il redditometro, è tutta d verificare.
L’Agenzia delle entrate nella circolare di luglio ha ammorbidito la sua posizione rispetto al progetto iniziale, precisando che il redditometro non scatterà in base alle spese medie statistiche ma solo con quelle certe, segnalate al cervellone centrale del fisco, ribattezzato Serpico. Però Marino osserva che «Serpico ormai è come un’idrovora, riceve dati da tutti, dalle concessionarie auto ai notai, dal registro immobiliare agli intermediatori finanziari. E, da fine ottobre, avrà anche i saldi per movimento dei conti correnti. Il rischio è che ci sia un’iperproduzione di informazioni, inutili per un’analisi seria». Insomma, il sistema rischia di esplodere se davvero tenta di incrociare i dati di 42 milioni di contribuenti.

Detto questo, è chiaro che i 35 mila che riceveranno il questionario devono rispondere entro 15 giorni, o chiedere una proroga, perché altrimenti incorrono in seri rischi.
«La risposta al questionario non è una facoltà, ma un obbligo» ricorda Marino. Anzitutto perché, se il contribuente riesce a provare che quelle spese in più rispetto al reddito dichiarato derivano per esempio da risparmi o da un’eredità, la procedura viene archiviata. In caso di mancata risposta c’è una sanzione che va da 258 a 2.065 euro, ma soprattutto scatta automaticamente l’accertamento dell’Agenzia delle entrate e non si possono più presentare dati e documenti che avrebbero dovuto essere allegati alle risposte al questionario.

Quindi, consiglia il professore «cominciate a fare mente locale sulle spese fatte in passato e se vi arriva il questionario rispondete. Non ci sarà molto spazio per la difesa, ma magari...».

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Damiano Iovino