Squinzi fa la guerra a Monti? Non gli conviene
Economia

Squinzi fa la guerra a Monti? Non gli conviene

Dopo le accuse di "macelleria sociale" relative alla spending review, ora il presidente di Confindustria deve stare attento alla fronda interna vicina a Bombassei e pronta al ribaltone

Nelle redazioni di tutta Italia rimbalzava, ieri pomeriggio, l’anatema lanciatogli contro da Mario Monti, il premier: "Dichiarazioni di questo tipo, come è avvenuto nei mesi scorsi, fanno aumentare lo spread e i tassi a carico non solo del debito ma anche delle imprese, e quindi invito a non fare danno alle imprese". E lui, con il telefonino staccato, se la pedalava serenamente nella Bergamasca. Per poi riattaccarlo la sera alle 20. Giorgio Squinzi, il presidente della Confindustria in carica dal 24 maggio scorso, è anche così.

Un uomo che ha creato praticamente da zero un gruppo come Mapei - da 2,1 miliardi di euro e 7.500 dipendenti in 27 Paesi - è anche uno che lancia una bomba mediatica e poi stacca il telefono. Difficile stargli dietro. Un po’ "Charles il giardiniere", l’eroe di "Oltre il giardino" che diventa premier per caso, senza aver mai fatto politica; un po’ Forrest Gamp, perchè non gli difettano le gaffe; ma anche, e soprattutto, Giorgio Squinzi è un imprenditore genuino, che viene dal popolo della piccola impresa e lo sente come pochi, non a caso eletto da questa componente dell’anima confindustriale, distante e diversa da quella dei Montezemolo e dei Tronchetti, che riflettono la grande industria multinazionale, e da quella dei Bernabè o degli Scaroni, che oggi rappresentano grandi utilities o ex monopolisti, statali o ex-statali.

Come capo delle relazioni esterne s’è preso in Mapei Francesco Fiori, già europarlamentare del Pdl, buon amico di Marcello Dell’Utri, ed è forse l’unico consulente con cui oggi si confronta. Ed è buon amico di Fedele Confalonieri, braccio destro di Silvio Berlusconi da sempre. Però Squinzi fila anche in buona armonia con Susanna Camusso, segretario generale della Cgil – e difatti è stato proprio il suo condividere l’allarme della leader sindacale per il rischio di "macelleria sociale" insito nella spending review che ha fatto infuriare Monti.

E si vanta di non aver mai licenziato, di non aver mai fatto cassa integrazione, e di aver sempre rinnovato il contratto di lavoro dei chimici, durante gli otto anni in cui ha presieduto Federchimica, con la firma unanime di tutti i sindacati. Insomma: un po’ di destra, un po’ di sinstra, sostanzialmente meta-politico. In questo senso molto molto moderno, a dispetto della sua età: ma a Montecitorio sono ancora i partiti a votare i provvedimenti del governo Monti.

E che cos’ha a che vedere il sanguigno Squinzi, amministratore unico del suo megagruppo, non quotato in Borsa, con l’algido economista che guida il governo dei tecnici, che dal 2005 e il 2011 è stato international advisor per Goldman Sachs? Che c’entra uno che finanzia il Sassuolo Calcio e pedala a 69 anni con lo stesso gusto con cui lo faceva a 20, con un premier che due mesi fa, dopo l’ennesimo scandalo del calcio scommesse, ha detto testualmente: "Bisogna riflettere e valutare se non gioverebbe per due-tre anni una totale sospensione di questo gioco"? Non c’entra niente, assolutamente niente.

Eppure sarebbe sbagliato individuare in questo confronto un dualismo tra due persone. Perchè Squinzi rappresenta solo se stesso e quel 51 per cento risicato di base confindustriale che l’ha votato: gente che, come lui, considera "una boiata" la riforma del lavoro, che non autorizza realmente i licenziamenti ma in compenso limita drasticamente la flessibilità in entrata; gente che come lui non saprebbe leggersi tutte le 183 pagine del decreto sviluppo, perchè già a pagina 30 gli "fuma la testa"; gente che, come lui, non crede alla buona lega di una spending review che prometta risparmi tagliando dipendenti statali che, tanto, ovviamente, non potranno essere messi sul lastrico. Insomma, Squinzi rappresenta gente vera che non conta niente.

Monti rappresenta ben più che se stesso: se non i poteri forti – ammesso che esistano ancora, sono totamente allo sbando – certamente un estabilishment internazionale di grandi banche, grandi finanzieri e grandi imprenditori globali che, in parte per realismo in parte per interesse, nemmeno si sognano di tentare di destabilizzare l’equilibrio Berlino-centrico di questa bislacca Unione europea e alla fine portano avanti a passi millimetrici un riformismo che finora non ha portato alcun frutto.

Si vedrà nelle prossime ore se Squinzi vorrà aggiustare il tiro o moderare i toni. Certo, il suo non è il linguaggio classico per un presidente della Confindustria: nè lo sono la foto sorridente a braccetto con la Camusso, nè i termini "boiata" o "macelleria sociale". La Confindustria della concertazione, quella "di lotta e di governo", non può parlare così. Peccato che non ci sia più, ormai, quasi niente da governare se non la trattativa in salita sulla cessione di sovranità nazionale; e non ci sia più niente per cui lottare, con i partiti di riferimento in ordine sparso, frastornati dai grillismi, incapaci di contarsi e di contare, allineati in un consenso opportunistico che mette insieme in Parlamento i voti di La Russa e Bersani, della Santanchè e di Rosi Bindi.

Un quadro decisionale incomprensibile per chiunque, ovviamente improduttivo a lungo termine, eppure determinante per le sorti a breve del Paese.
Chi lo conosce meglio sa che Squinzi non torna indietro, non rinnega la sua naturalezza, ritiene – tanto più dopo aver girato in un mese e mezzo una trentina di assemblee locali – di esprimere meglio di chiunque altro la pancia dell’imprenditoria italiana. Ma deve stare attento al golpe interno, se vuole conservare l’incarico al quale è stato appena eletto: quel 49% che avrebbe preferito Bombassei e sa usare il lessico di Monti e della Bce molto meglio di lui, è pronto al ribaltone.

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Sergio Luciano