Spending review: qui si ferma
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Economia

Spending review: qui si ferma

Il nuovo sceriffo antisprechi, Carlo Cottarelli, dovrà confrontarsi con un pugno di alti burocrati che hanno in mano i numeri dello Stato. Viaggio nei segreti della Ragioneria

Nei corridoi lunghi e glaciali del Tesoro in via Venti settembre, dentro il palazzone voluto da Quintino Sella come una fortezza quadrangolare con tanto di portico e piazza d'armi, la partita si gioca sul filo del rasoio, attorno a qualche decimale di punto, se ha ragione l’Istat e il prossimo anno la crescita sarà di un misero 0,7, anziché l’1,1 per cento previsto dal governo, sarà arduo mantenere il deficit pubblico entro la fatidica quota 3. Il ministro Fabrizio Saccomanni non ci sta e replica cifra su cifra.

Le uscite e le entrate dello Stato confluiscono in una sorta di scatola nera contro la quale dovrà scontrarsi Carlo Cottarelli, nuovo sceriffo della spending review. Il compito di tirar fuori i dati, centellinandoli come succo prezioso, spetta a un pugno di alti burocrati i quali si comportano come sommi sacerdoti. Dal 20 maggio è arrivato alla loro guida Daniele Franco, nominato in gran fretta da Saccomanni suscitando sorpresa e malumori. Il nuovo ragioniere dello Stato dirigeva il servizio studi della Banca d’Italia, è un bellunese di 60 anni, uomo amabile, tecnico di valore abituato a ragionare con il modello econometrico elaborato in via Nazionale con l’aiuto del premio Nobel Franco Modigliani. Adesso ha a che fare con una ben diversa lista del dare e dell’avere, zeppa di insidie, anche politiche.

Tutti al ministero già si chiedono se riuscirà a intendersi con uomini macchina come Francesco Massicci, 65 anni, il capo dell’Igespes, l’uomo che ha in mano i flussi della spesa sociale, a cominciare da quella sanitaria, il funzionario che ha trattato con le regioni in rosso il rientro dal deficit, l’unico a conoscere davvero il costo degli esodati. Un duello in punta di numeri con il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua e una trappola di prima grandezza nella quale è caduta Elsa Fornero. Massicci rispondeva a Mario Canzio, detto «Baffi d’acciaio», ragioniere generale dal 2005, che ha trascorso ben 41 anni in quel sancta sanctorum dove si celebrano i grandi misteri del debito pubblico.

L’addio di Canzio è stato amaro, con una lettera nella quale si è detto «ferito». Ma il rapporto di fiducia è tutto. Il ragioniere fa capo al ministro, ma deve anche pilotare una macchina complessa: 9 ispettorati più un servizio studi in via Venti settembre, 14 uffici nei ministeri con portafoglio, 103 ragionerie territoriali in ogni angolo del Paese. Assorbe circa la metà dei 13 mila dipendenti del ministero; è il secondo dipartimento dopo le Finanze: mentre quest’ultimo sovrintende alle entrate, la Ragioneria è il collettore della spesa. Al netto di imbrogli, non c’è matita comprata nel più remoto comune che non venga registrata, ma il fatto è che nessuno riesce a capire se è stata usata e soprattutto se è stata pagata il giusto. Risultato, la spesa è aumentata al ritmo di 30 miliardi l’anno nonostante tagli e stangate. È il limite di fondo al quale si è cercato di rimediare con interventi dall’alto.

Franco non è il primo ragioniere catapultato da un ministro. Anche Vittorio Grilli era stato scelto da Giulio Tremonti nel 2002 per sostituire un grosso calibro, Andrea Monorchio, alla guida dal 1989 al 2002, sulla scia di altri potenti mandarini come Vincenzo Milazzo negli anni 70 e 80. Economista, bocconiano, professore a Yale, Grilli sembrava un pesce fuor d’acqua nonostante il rapporto di stretta fiducia con il ministro. In via Venti settembre dicono che è stato un grande direttore generale e un ragioniere disorientato. Lo dimostra il clamoroso incidente che nel 2004 costò addirittura il posto a Tremonti.
È vero, fu uno scontro di potere con Gianfranco Fini, però il casus belli nacque dalle carte uscite dalla Ragioneria, secondo le quali per aggiustare il bilancio bastavano 2 miliardi di euro. Il leader di An tirò fuori un’altra cartuccella nella quale era scritto che la manovra doveva essere ben più pesante per tener conto delle regole europee. Copertura tecnica per un contrasto politico, svela di quante mine è disseminata la via dei conti pubblici. Non è l’unico caso.
Nel 2006 Romano Prodi vince le elezioni e al Tesoro arriva Tommaso Padoa Schioppa. La Ragioneria registra che le entrate sono aumentate più del previsto, ma tace. È il lascito di Tremonti, una torta da 16 miliardi, e quando salta fuori comincia l’assalto. Il ministro nega: «Non c’è alcun tesoretto», ma lo infilzano da destra e da sinistra.

Sotto il fuoco amico finisce Corrado Passera nel 2012, con uno scontro aperto sugli investimenti, gli sgravi all’edilizia, il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle aziende. Canzio mostra che non ci sono le risorse, appoggiato da Grilli in veste di ministro. Mario Monti non sa che fare. Ma la sorte del ragioniere è segnata. Viene fuori anche il maxistipendio di 560 mila euro, uno dei più alti in assoluto prima dell’allineamento al primo presidente di Cassazione. E tuttavia il fumo statistico continua a coprire sia i crediti delle imprese (il 10 luglio per sbloccarli deve intervenire persino Giorgio Napolitano), sia le risorse per l’Imu e l’Iva, due aspetti chiave sui quali le cifre continuano a ballare.

Sui pontefici del debito è caduta ora un’altra doccia fredda con l’arrivo di Carlo Cottarelli dal Fondo monetario internazionale, per far decollare la spending review. Enrico Bondi, detto «Mani di forbice», non c’è riuscito, si dice perché Canzio non gli ha fatto vedere le carte. Una cosa è Montedison o Parmalat, di tutt’altra pasta è fatta la Ragioneria. Cottarelli è molto amico di Franco. E, insieme al nuovo direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, che viene dalla Banca mondiale, forma una sorta di troika dalla forte esperienza internazionale. Ma servono poteri straordinari e autonomi; forse anche una struttura di sostegno, si parla di un centinaio di esperti in grado di andare a ispezionare la spesa. Con il rischio di innescare una reazione di rigetto.

Quando nel 1869 il conte Luigi Guglielmo di Cambray Digny, ministro delle Finanze del Regno d’Italia, presentò in Parlamento la legge sulla contabilità dello Stato, vi inserì la nascita di un organismo tecnico che rispondesse ai criteri di Cavour: tutta la struttura statale doveva essere organizzata per produrre un buon bilancio e il ragioniere era il cerbero della spesa. Nel 1924 Alberto De’ Stefani lo trasforma in un controllore della legittimità delle decisioni prese e crea un corpo di ispettori. Nel 1978 s’aggiunge la programmazione di bilancio e la fatidica legge finanziaria. È lì dunque, nel sancta sanctorum, che viene confezionata la pillola amara fatta ingoiare agli italiani.

«Gli ingredienti li forniamo noi, però la formula spetta al ministro» si difendono i ragionieri. «È così, ma questa struttura nasconde in sé la contraddizione tra controllore e controllato» replica Gianfranco Polillo, ex sottosegretario all’Economia nel governo Monti, che da una vita studia i misteri della spesa pubblica. Da una parte la Ragioneria deve essere leale con il ministro, dall’altra deve tenerlo d’occhio. Come si fa?

Negli Stati Uniti esiste il Cbo (Congressional budget office), il cui direttore viene nominato dai presidenti del Senato e della Camera. Ogni anno fornisce dati considerati oggettivi sui quali basare la politica fiscale. L’Unione Europea ha escogitato il Fiscal council per «infrangere il monopolio informativo del governo» spiega Lucio Landi, già membro del consiglio di esperti del Tesoro. Ha poteri autonomi e nasce come organismo indipendente «per rafforzare, insieme con la regola del pareggio in termini strutturali, la disciplina di bilancio».

La Ragioneria, dunque, ha i giorni contati? I suoi poteri cambieranno e saranno limitati. «Licenziamo il ragioniere e diamo ai ministri la piena responsabilità delle scelte» propone l’irriverente Gustavo Piga, economista ed ex presidente della Consip. La struttura tecnica serve, semmai, per controllare il loro operato. Franco non ha in programma alcuna eutanasia, ma una riforma culturale prima ancora che organizzativa, quella sì. Non più solo la partita doppia, ma il bilancio analizzato in rapporto con le altre variabili economiche: se si spende per creare lavoro, le entrate compensano le uscite. Un po’ d’America nella patria di fra Luca Pacioli, al quale la Ragioneria ha dedicato la propria biblioteca. Niente più meri contabili, questo l’impegno, e tanto meno sacerdoti.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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