La recessione condannerà l’Occidente all’emarginazione?
Economia

La recessione condannerà l’Occidente all’emarginazione?

Il problema non è il mercato ma la sua solitudine

Ancora una volta, a scanso di equivoci, vale lapena ribadirlo: il problema non è il mercato, il problema è la sua solitudine. Se la base sociale dei consumi torna a contrarsi, se l’accesso a beni e servizi di welfare ridiventa un lusso per pochi, il privilegio, questa volta prodotto attraverso il mercato stesso, sarà sempre più la caratteristica connotante la nostra società, e la democrazia rischierà una sconfitta questa volta forse definitiva. Perché quello che differenzia la crisi odierna rispetto a quella del 1929 è che, nel frattempo, il nostro posto nel mondo si è fatto meno centrale. Il mondo si è incredibilmente deoccidentalizzato, e mentre noi arranchiamo e ci interroghiamo su quanto siamo disposti a credere ancora e lottare per affermare il nostro modello di sviluppo, altri crescono e, crescendo, affermano e impongono implicitamente il loro.

Nel 1929, allo scoppiare della crisi, l’economia occidentale rappresentava il 74,1 per cento del pil mondiale. India e Sud Africa, due degli attuali Brics, erano rispettivamente una colonia e un dominion di sua maestà britannica. La Cina era sconvolta da una guerra civile che si sarebbe conclusa solo nel 1949, con la vittoria comunista. La Russia era in pieno caos economico ed era fuori del circuito politico ed economico del mondo. Il Brasile era ancora un grande paese agricolo. Oggi le speranze che la crisi non diventi ancora più grave sono affidate proprio ai Brics e ai Mist. Che questa speranza si concretizzi è tutto da dimostrare. Molte sembrano, infatti, le incognite che gravano sulla Cina e sulla possibilità di riconvertire convenientemente un sistema economico trainato dalla domanda interna più che dall’export. In particolare, proprio questa transizione rischia di fare esplodere le contraddizioni implicite nella convivenza di un sistema politico ancora a partito unico con un’economia che dovrà sempre più essere fondata sulla concorrenza interna: scenario in cui la crescente insostenibilità del monopolio della rappresentanza e del potere da parte del partito comunista diventa qualcosa di più che una semplice possibilità. Proprio il caso cinese ci mostra come il mercato senza democrazia produce diseguaglianze gigantesche, probabilmente insostenibili.

L’opportunità che alla fine della presente crisi il canone occidentale continui ancora a rappresentare un modello di organizzazione dei rapporti fra economia e politica nella forma di mercato e democrazia non dipende però primariamente da questi sviluppi, ma dalla fiducia e dall’attaccamento che in Occidente sapremo dimostrare alla nostra tradizione. Sta a noi e solo a noi ribadire concretamente che non siamo disponibili al sacrificio di quell’uguaglianza che ha costituito la cifra della costruzione del moderno Occidente.

Lo spazio per la speranza e per l’azione c’è ancora e si fonda sulla nostra capacità di restaurare il funzionamento di quel modello, a partire dalla rigorosa rivalutazione di quei meccanismi di controllo e di garanzia del funzionamento dei mercati che gli scandali finanziari da cui la crisi prese avvio nel 2007 hanno seriamente manomesso. Possiamo ancora farlo proprio perché solo l’associazione tra democrazia e mercato rende efficace quella «rule of law» che resta la migliore alternativa per la tutela della proprietà privata, pietra angolare di ogni autentica concezione di mercato e di capitalismo.
* professore di relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano

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Professore ordinario di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano

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