Rapporto debito/pil: un mito da sfatare
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Economia

Rapporto debito/pil: un mito da sfatare

La ricchezza delle famiglie è il vero parametro per la sostenibilità. Per questo l’Italia non è a rischio. Però l’Europa non vuole capirlo

Quando la situazione finanziaria dell’Italia viene valutata nelle sedi internazionali, e in particolare a livello di Commissione europea, chi ci giudica argomenta sempre che il nostro Paese non può in alcun modo derogare agli impegni presi in termini di stabilizzazione delle finanze pubbliche, nonostante i rilevanti sforzi già fatti e il miglior avanzo primario del Continente, perché noi avremmo «il secondo debito pubblico più alto d’Europa dopo quello della Grecia» (in rapporto al pil). Sulla base di questo presupposto viene preclusa la possibilità di ottenere spazi di manovra fiscali per rilanciare la crescita o di poter godere di rinvii temporali degli obiettivi di bilancio stabiliti. Mentre la Commissione europea ha invece di recente accordato con generosità margini e proroghe ad altri stati come Spagna, Francia e Paesi Bassi, che pure hanno sinora clamorosamente disatteso gli obblighi di riduzione dei rispettivi deficit statali.

Il nostro governo ha le mani legate o quasi. Ci è stato solo permesso di pagare 0,5 punti di pil di debiti della pubblica amministrazione nel 2013, restando comunque sotto il 3 per cento del rapporto deficit/pil, sempre a causa del fatto che il debito statale è troppo alto. Ma la realtà è che l’Italia non ha affatto il secondo debito pubblico d’Europa, se si esce dalla logica, del tutto arbitraria, di rapportare il debito statale unicamente al pil. Vi sono infatti altre grandezze economiche ben più significative con cui confrontare il debito pubblico. Per esempio, se lo si pone in rapporto alla ricchezza finanziaria netta delle famiglie, il debito è solo di poco superiore a quelli di Germania e Francia e largamente inferiore a quelli di Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo, Cipro o Slovenia. Inoltre, in valore assoluto, il debito italiano non svetta più in Europa come 20 anni fa. In euro correnti è stato superato da quello tedesco ed è ormai stato quasi raggiunto anche da quelli francese e inglese.

Dunque, pur essendo ovvio che il debito va ridotto, l’Italia sotto il profilo delle finanze pubbliche si trova in una situazione assolutamente non critica, diversamente da quanto si tende a pensare, specie all’estero. Infatti, nel 2012 il debito pubblico italiano sottoscritto da non residenti era pari a circa il 45 per cento del pil, un valore rassicurante, inferiore a quelli di Germania e Francia, mentre il debito «interno» a carico dei residenti, nell’ipotesi teorica che fosse interamente sottoscritto dalle famiglie (e non, come ora, principalmente da banche e soggetti finanziari), assorbirebbe solo il 49 per cento della ricchezza finanziaria netta delle famiglie stesse, contro l’84 per cento nel caso del debito pubblico interno spagnolo o addirittura del 91 per cento nel caso di quello interno greco (pur essendo per lo più in mani straniere).

Taluni opinionisti sostengono che i paesi con un alto debito pubblico in rapporto al pil ma con un’elevata ricchezza privata, come l’Italia, dovrebbero
tassare tale ricchezza per abbattere il rapporto debito/pil. Si tratta di una tesi davvero bizzarra, perché, se è comprovato che il debito pubblico è adeguatamente bilanciato dallo stock di ricchezza finanziaria netta delle famiglie, esso non dovrebbe essere considerato pericoloso (e quindi da abbattere drasticamente a discapito della ricchezza), contrariamente a quanto si potrebbe dedurre dal solo rapporto debito pubblico/pil.

Le attuali difficoltà di molti paesi dimostrano che non è la sola crescita del rapporto debito/pil a rompere l’equilibrio finanziario tra settore pubblico e privato, determinando una crisi di sostenibilità finanziaria dell’economia. Questa, infatti, si raggiunge quando il livello del debito pubblico lordo si avvicina in modo troppo rapido a quello della ricchezza finanziaria netta delle famiglie o addirittura supera quest’ultima. In tal caso, se per ipotesi tutti gli investitori esteri recedessero, l’intero onere del finanziamento del debito pubblico ricadrebbe sui residenti e a quel punto la ricchezza privata non potrebbe più essere destinata ad altre forme di investimento (depositi, azioni, obbligazioni bancarie...) che meglio favoriscono la crescita dell’economia. La situazione diventerebbe addirittura drammatica qualora il debito pubblico superasse lo stock di ricchezza finanziaria netta delle famiglie, come è avvenuto in Grecia e Irlanda e sta accadendo in Spagna e a Cipro. In tal caso, infatti, non disponendo i residenti di ricchezza sufficiente, le nuove emissioni del debito pubblico potrebbero essere sottoscritte solo da investitori stranieri. Ma ciò sarebbe alquanto improbabile, stante la inevitabile crisi di fiducia che si determinerebbe nei confronti del paese emittente, che perciò farebbe default.

Lungi dall’essere tassata con una imposta patrimoniale secca di grandi proporzioni, la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è di per sé una garanzia strutturale della sostenibilità del debito pubblico, anche se è evidente che quest’ultimo va aggredito in modo più efficace rispetto al passato con tagli alle spese improduttive e agli sprechi. L’Italia, inoltre, ha bisogno di riforme strutturali che non possono più essere rinviate.

Tuttavia, proprio in questi giorni, in cui è stato messo in discussione il paradigma degli economisti Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, secondo i quali un debito pubblico è critico e frena lo sviluppo quando supera il 90 per cento del pil, sarebbe importante che l’Italia propon che superano il 90 per cento dello stock di ricchezza finanziaria netta delle famiglie. Dunque non il nostro debito, che attualmente è intorno al 77 per cento della ricchezza e che meriterebbe uno spread ben più basso. Il che ci permetterebbe anche maggiori margini fiscali per rilanciare la crescita, abbassare le tasse sul lavoro ed eliminare l’Imu sulla prima casa dei meno abbienti.

* vicepresidente Fondazione Edison

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Marco Fortis