Quattro consigli per esportare vino negli Stati Uniti
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Economia

Quattro consigli per esportare vino negli Stati Uniti

Visitate il paese per trovare un importatore affidabile, definite una strategia di comunicazione di medio periodo, partecipate alle fiere di settore e attenzione a mantenere prezzi competitivi

Dal 6 al 9 aprile, grazie a Vinitaly 2014 ,Verona si trasformerà nella capitale del vino italiana, ospitando la 48esima edizione del salone internazionale dei vini e dei distillati. Sono già state confermate le presenze di 50mila operatori provenienti da 120 diversi paesi, e l'obiettivo è quello di superare il record registrato lo scorso anno, quando sono stati accolti 150mila visitatori, un terzo dei quali stranieri.

Anche quest'anno i padiglioni speciali di Vinitaly saranno tanti. Ci saranno quelli dedicati ai produttori stranieri, alla lavorazione di vino biologico e biodinamico, è stata messa in programma una rassegna internazionale dell'agroalimentare di qualità, e grazie a Enolitech verranno approfondite le varie tecniche per la viticoltura, l'enologia e le tecnologie olivicole ed olearie. Vinitaly rappresenta poi il luogo ideale non solo per mettere in contatto produttori e consumatori, ma anche per incontrare varie categorie di esperti in grado di decodificare le caratteristiche, le opportunità e le trappole di questo o quel mercato. Tra questi, Gino Colangelo della Colangelo & Partners Public Relations (CPR), un'agenzia di comunicazione fondata a New York nel 2006 e attiva nella promozione del Made in Italy negli Stati Uniti, principalmente in ambito food, wine & spirits, cui abbiamo chiesto di raccontarci quale potrebbe essere un'efficace strategia di marketing per un brand del vino interessato a posizionarsi negli Usa.

Il fondatore di CPR ha spiegato anzitutto che gli Stati Uniti sono oggi il primo mercato mondiale per quel che riguarda il consumo di vino, e nonostante la West Coast continui a rimanere fin troppo fedele alle produzioni californiane, nella East Coast le opportunità per le bottiglie del Bel Paese sono tantissime, anche se la concorrenza da parte sia di produttori emergenti come Argentina e Cile sia di quelli più tradizionali come Spagna e Francia si fa sentire.

L'Italia è oggi il principale importatore di vino negli Stati Uniti, dove può contare su una quota di mercato del 30 per cento che sta crescendo, anche se lentamente. Eppure, Gino Colangelo ritiene che, a dispetto delle opportunità offerte da questo paese, i produttori italiani dovrebbero valutare con attenzione l'ipotesi di esportare negli Usa, facendo attenzione sia a se il loro attuale livello di produzione garantisca un minimo di autonomia in questo mercato, sia ai costi, livello di stabilità e facilità di fare business nello stesso, senza trascurare i gusti dei potenziali futuri consumatori.

Appurato questo, il team di CPR suggerisce di muoversi seguendo una strategia riassumibile in quattro punti:

1) Visitare gli Stati Uniti per capire personalmente che tipo di mercato sia;

2) Identificare un importatore affidabile con l'aiuto del quale capire che vino conviene vendere e a che prezzo;

3) Partecipare alle fiere di settore del proprio mercato di riferimento;

4) Farsi aiutare da agenzie specializzate o da quegli importatori che si occupano anche di marketing a costruire la strategia di comunicazione da adottare in America, che è fondamentale per farsi conoscere (e riconoscere) dalla fascia di consumatori che si desidera conquistare. Allo stesso tempo, è importante assicurarsi che quest'ultima abbia un respiro di medio più che di breve periodo.

Se muovendosi in questo modo il successo può dirsi più o meno assicurato, facendo attenzione a un altro paio di dettagli le opportunità sul mercato statunitense possono ulteriormente moltiplicarsi. Ad esempio, è importante capire che quello americano non è un mercato uniforme, e che i consumatori locali sono perfettamente in grado di valutare la qualità dei prodotti che acquistano. E' quindi fondamentale mantenere prezzi competitivi ed evitare di immaginare di avere successo in poco tempo. Altro errore da non commettere è quello di limitare le visite negli Stati Uniti a meno di 3 o 4 l'anno, assieme a quello di non stanziare fondi sufficienti per sostenere lo sbarco in America (a questo proposito, gli esperti di CPR hanno calcolato che per organizzare una campagna pubblicitaria vincente è necessario mettere in conto una spesa di almeno 100mila dollari l'anno se si vogliono coinvolgere i media tradizionali, i social media e stimolare le relazioni commerciali bilaterali. Ovviamente, ridimensionandone gli obiettivi, si possono studiare anche campagne più economiche).

Altro grande errore da evitare è quello di credere che il vino italiano si venda da solo proprio in virtù della sua italianità, o che la pubblicità sia l'unico modo efficace per promuovere una nuova etichetta su questo enorme ed estremamente diversificato mercato. Quindi insomma, attenzione a non lasciarsi sfuggire delle enormi opportunità, ma attenzione anche a non giocarsele per trascuratezza e scarsa lungimiranza.

 

 

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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