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Economia

Piani Individuali di Risparmio a rischio. Ecco perché

Negli ultimi due anni 800mila italiani hanno scelto questo strumento di investimento, ma ora rischiano

Ancora qualche settimana e il nodo sui Pir, i Piani individuali di risparmio nati con l’obiettivo di aumentare gli investimenti privati nelle aziende made in Italy, sarà sciolto da un decreto attuativo che finalmente chiarirà i punti oscuri introdotti dalla recente legge di Bilancio.

Ad augurarselo sono soprattutto le società di risparmio gestito che lo scorso anno grazie ai Pir hanno raccolto 4 miliardi di euro, andati a sommarsi agli 11 già rastrellati nel 2017. Una goccia nel mare dei 2 mila miliardi di patrimonio del risparmio gestito tricolore, ma che ha aiutato a tenere a galla un 2018 difficile per l’industria italiana. Il dato del mese di dicembre lo indica chiaramente: raccolta sui Pir +82,2 milioni di euro, raccolta dei fondi comuni -1,6 miliardi.

Dal 1° gennaio, però, la gioiosa macchina da guerra dei Piani s’è inceppata. Anzi, bloccata.

L’attuale legge di Bilancio prevede che i Pir del 2019, per non scontare tassazione sulle plusvalenze maturate sui prodotti detenuti cinque anni, debbano investire il 3,5 per cento del capitale in fondi di venture capital più un altro 3,5 per cento in società quotate all’Aim, il mercato di Borsa riservato alle piccole e medie imprese ad alto potenziale di crescita, e che queste abbiano meno di 50 milioni di fatturato e meno di 250 dipendenti.

Un «ritocco» alla normativa che l’Italia delle start-up e delle aziende innovative chiedeva da tempo per dare ossigeno finanziario a tante realtà hi-tech piccole ma promettenti. Dall’analisi di Assogestioni, l’Associazione italiana del risparmio gestito, emerge che finora un terzo del portafoglio dei Piani è stato investito in società a media capitalizzazione e soltanto un risicato 2 per cento è finito sull’Aim, valore che però corrisponde al 10 per cento del suo flottante. Ora la modifica introdotta dal governo dovrebbe portare almeno 400 milioni di risorse fresche sul listino preferito dalle Pmi, in base alle proiezioni di Ambromobiliare, e magari ampliare la platea di 30-40 aziende già in lizza per la quotazione. «Questa misura potrebbe rappresentare un vero boost alla crescita del mercato dell’equity al servizio dell’economia reale e delle imprese» sottolinea Anna Lambiase, amministratore delegato di Ir Top consulting, società di consulenza che ha accompagnato sull’Aim molte matricole ad alto tasso di crescita. «E credo che proseguirà il trend positivo trainato da una domanda di quotazioni che riscontriamo in sensibile crescita da parte delle Pmi, anche grazie all’obbligo d’investimento sull’Aim».

Tutto bene per gli investitori istituzionali, che dopo il decreto attuativo torneranno a collocare i Pir sul mercato. Meno per i risparmiatori. L’Aim è un mercato ad alto potenziale, ma di piccole dimensioni - solo 7 miliardi di euro di capitalizzazione contro i 550 di Piazza Affari - così come lo sono le sue 110 aziende: Ir Top stima che in media la società-tipo quotata su questo listino registri 40 milioni di ricavi, una capitalizzazione di 36 e un flottante del 22 per cento. Quindi questo flusso di denaro aggiuntivo potrebbe portare con sè il rischio concreto di una bolla speculativa sulle società a piccola e media capitalizzazione quotate.

A segnalarlo è un documento sui Pir realizzato da Deloitte, Ntcm e JeMe Bocconi studenti che fa il punto sul successo dei Piani, ma pone l’accento anche sui rischi di questi prodotti finanziari finora sottoscritti da 800 mila italiani. «Qualora questa crescita di volumi e nelle liquidità degli indici non fosse supportata da una corrispondente quotazione di un numero adeguato di Pmi, e dato che l’attuale bacino è limitato, vi sarebbe il rischio concreto che si formi una bolla speculativa delle mid e small cap» conclude il paper.

Tante luci, ma anche qualche ombra. «L’obbligo per i Pir d’investire una parte di patrimonio sull’Aim mi sembra un’operazione un po’ infelice» sottolinea Stelvio Bo, consulente finanziario indipendente. «Per come sono stati proposti i Piani, infatti, non mi pare che ci sia stata molta attenzione alla propensione al rischio del risparmiatore». Insomma, da un lato i Pir sono venduti come prodotti «per tutti», ma dall’altro l’obbligo di legge d’inserire nel patrimonio asset meno liquidi - se non illiquidi come le quote dei fondi di venture capital - ne aumenta la rischiosità. Per non parlare della concentrazione geografica. «I Pir per loro natura investono solo in strumenti finanziari italiani» ricorda Bo «e quindi devono essere inseriti in un’asset allocation bilanciata, dove l’Italia non superi il 20 per cento del portafoglio».   

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Mikol Belluzzi