Perché la crisi nell'Eurozona non è ancora finita
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Perché la crisi nell'Eurozona non è ancora finita

Lo dimostrano i dati Eurostat: il pil è cresciuto in tre mesi dello 0,2% rispetto allo 0,4% atteso. A pesare la paralisi delle imprese. Che non ricevono credito

Altro che ripresa economica. La crisi dell'eurozona non è ancora finita. A testimoniarlo sono i dati diramati oggi da Eurostat, che ha registrato una crescita del Pil dell'area euro dello 0,2% su base trimestrale. Ben al di sotto delle stime, che vedevano un'espansione dello 0,4%. La maglia nera fra le maggiori economie del continente è l'Italia, il cui Pil ha fatto segnare un calo congiunturale dello 0,1% e dello 0,5% su base tendenziale. E Istat lancia l'allarme: in valori assoluti il Pil italiano è tornato ai livelli del 2000. La palla ora passa alla Banca Centrale Europea (BCE) che il mese prossimo potrà tentare di invertire la rotta.

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Il presidente della BCE lo aveva detto senza troppi giri di parole nelle ultime tre riunioni del Governing Council dell'istituzione da lui guidata. "La ripresa rimane fragile, disomogenea e modesta", andava ripetendo Mario Draghi. Contrari i singoli governi degli Stati membri, facendosi forti dei dati - assai positivi - dei Purchasing Managers' Index (PMI), gli indici che indicano gli acquisti da parte delle imprese. Eppure, la doccia fredda, anzi gelata, è arrivata lo stesso. Solo la Germania, con un più 0,8% su base congiunturale, può dirsi felice. Per Berlino si è trattata infatti la più significativa espansione dell'ultimo triennio. Nemmeno la Francia sorride, dopo la giornata di oggi. Il Pil è rimasto fermo al livello dei tre mesi precedenti. Un'altra grana per il presidente François Hollande, il cui consenso è in costante calo, e per il primo ministro Manuel Valls.

La reazione dei mercati finanziari non si è fatta attendere. Dando uno sguardo all'azionario, l'indice FTSE MIB, il principale di Borsa Italiana, ha accusato il colpo, arrivando a perdere oltre 3 punti percentuali. Allo stesso modo, una piccola pressione è avvenuta anche sull'obbligazionario, con il rendimento del Btp decennale che è tornato sopra quota 3 per cento. Simile la situazione sulle altre piazze dell'eurozona. Degno di nota è stato il commento di Michael Hewson, Chief Market Analyst di CMC Markets: "Eurostat ha certificato come l'Europa sia ancora nel pieno della crisi e che senza l'apporto della BCE la fase più acuta, quella con il rischio di disgregazione dell'eurozona sempre maggiore, non sarebbe stata superata".

La Bce, appunto. Alla luce dei dati odierni, è ancora più facile che una mossa a sostegno dell'economia reale arrivi durante alla prossima riunione del consiglio direttivo, prevista per il 5 giugno. A patire, soprattutto in Francia e in Italia, sono infatti le imprese. La restrizione del credito bancario è ancora elevata, così come la rottura del meccanismo di trasmissione di politica monetaria della Bce. In altre parole, le azioni finora condotte dall'Eurotower sono arrivate solo in parte all'economia reale. E, a fronte del pericolo di perdere il momento per consolidare la ripresa che si era affacciata sul finale del 2013, è legittimo immaginare che possa esserci un intervento.

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Anche se l'ipotesi di un Quantitative Easing (QE) da parte della BCE resta in campo, le mosse più probabili potrebbero essere altre. Un nuovo taglio al tasso d'interesse di riferimento (finora Draghi li ha lasciati invariati ) e un nuovo round di operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-Term Refinancing Operation, o LTRO), come quelle condotte fra il dicembre 2011 e il febbraio 2012 per un totale di 1.089 miliardi di euro. Il tutto con la speranza che ci sia l'impatto sperato sulle economie più deboli.

Lo stupore per i dati sul Pil dell'area euro è destinato a scemare in fretta fra gli operatori finanziari. Del resto, come ribadito dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) durante l'ultimo meeting di primavera, l'espansione economica nell'eurozona presentava diversi punti oscuri. Oltre alla evidente disomogeneità, la ripresa si basava in prevalenza sulla domanda esterna, più che su quella interna. E con l'avvio dell'exit strategy da parte della Federal Reserve, tramite l'assottigliamento del Quantitative Easing (QE), le economie emergenti avrebbero ridotto il loro supporto, seppur gradualmente. Meno sostegno della domanda esterna, però, avrebbe dovuto tradursi in un miglioramento delle condizioni di accesso al credito sul fronte interno, che avrebbe giocato sulla domanda domestica. Quest'ultimo non è mai avvenuto e il risultato di oggi ne è la prova. Per l'area euro le sofferenze non sono ancora finite.

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Fabrizio Goria

Nato a Torino nel 1984, Fabrizio Goria è direttore editoriale del sito di East, la rivista di geopolitica. Scrive anche su Il Corriere della Sera e Panorama. In passato, è stato a Il Riformista e Linkiesta e ha scritto anche per Die Zeit, El Mundo, Il Sole 24 Ore e Rivista Studio. È stato nominato, unico italiano, nella Twitterati List dei migliori account Twitter 2012 da Foreign Policy.

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