Europa
(AP Photo/Virginia Mayo, File)
Economia

Paradisi fiscali in Europa. E' ora di agire

Mentre si discute dell'inserimento degli Emirati nella "black list" la Ue continua a non occuparsi di Irlanda, Malta, Lussemburgo. Perdendo tasse per miliardi di euro

È dei giorni scorsi la notizia che Ecofin ha inserito Emirati Arabi nella black list UE delle "giurisdizioni fiscali non cooperative" (i cosiddetti Paradisi Fiscali), insieme ad altri 14 paesi, per non avere adeguato entro il 2018 le rispettive normative fiscali agli standard di cooperazione e scambio di informazioni con l’UE. L’Italia si era opposta a questo inserimento nella blacklist perchè, sebbene tutte le necessarie riforme fossero state effettivamente varate, in realtà la ragione del mancato adeguamento entro il 2018 era dovuta alla durata tecnica dell’iter legislativo del paese.

L’adeguamento tuttavia, sarebbe imminente. Il ministro Tria, quindi è riuscito ad ottenere che nel corso del 2019 possa essere rivista la blacklist e che si possa rapidamente provvedere al reinserimento degli Emirati nell’ambito della white list.

Il tema sembra essenzialmente tecnico, invece ha una rilevante dimensione politica che riguarda la scelta di gestire ed applicare le regole con rigore o elasticità a seconda di convenienze, rapporti di forza ed interessi economici.

Infatti, mentre è aperta la discussione sui paesi non UE inseriti nella black list e nella cosiddetta grey list, ossia, sotto osservazione, la ONG Oxfam solleva il problema di quelli che definisce senza mezzi termini paradisi fiscali in casa UE e punta il dito in particolare su cinque paesi membri: Cipro, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda. Paesi che, per il solo fatto di essere membri dell’UE si giovano della presunzione di non essere annoverati tra i paradisi fiscali. “Per essere credibile l’UE dovrebbe mettere ordine prima di tutto in casa propria”, si legge nel rapporto, e si denunzia che nei paesi UE l’80% di proventi sottratti alla tassazione per effetto di pratiche di profit shifting in realtà finiscono in questi paradisi fiscali all’interno della stessa UE. In particolare si afferma che nel 2015 qualcosa come 210 miliardi di dollari, frutto di pratiche di profit shifting, sarebbero finiti in Irlanda, Lussemburgo e Olanda e che in particolare l’Italia nello stesso anno si sarebbe giocata circa 23 miliardi di dollari di mancate entrate tributarie.

Il rapporto è ricco di casistiche ed evidenzia come questi cinque paesi UE oggi non supererebbero i criteri (in particolare il criterio di “Fair taxation”) per essere esclusi dalla blacklist.

Le accuse del rapporto Oxfam e una frequente menzione del Lussemburgo, richiamano alla memoria il caso scoppiato verso la fine del 2014 degli accordi di ruling tra multinazionali e fisco lussemburghese (i cosiddetti ATA, Advanced Tax Agreements), che con l’assicurazione di copiosi risparmi fiscali hanno fatto affluire capitali miliardari nel sistema finanziario e nelle casse dell’erario lussemburghesi, durante il lungo governo di Juncker, mai realmente affrontato dalle autorità dell’UE.

Tutto questo indubbiamente solleva un problema, o per lo meno un altro dei tanti, in termini di credibilità delle istituzioni europee, che talvolta esibiscono rigore e forza muscolare a corrente alternata, a seconda degli interlocutori.

Questo conduce ad un interrogativo: forse il framework di regole e principi dell’Unione in materia fiscale e un certo approccio ragionieristico non hanno consentito di tenere il passo delle evoluzioni e delle dinamiche imposte dal mondo dei capitali e della finanza. Ma quand’è che arriverà il momento di rimettere finalmente in discussione le regole fondative del sistema Europa per far sì che sia possibile strutturare un sistema fiscale europeo effettivamente armonico ed in grado di restituire omogeneamente risorse e competitività tra tutti i paesi UE?

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Luciano Quarta