Imprese, del dover non v’è certezza
Economia

Imprese, del dover non v’è certezza

Il quasi esproprio dell’Ilva, le responsabilità sulla vicenda Eternit, i vincoli alla Parmalat sulla Centrale del latte di Roma: in Italia le regole dell’economia non sono mai chiare. E niente spaventa gli investitori esteri quanto i nostri tribunali

È come se ormai l’Italia avesse deciso di respingere i capitali esteri. E di scoraggiare ulteriormente gli investimenti nazionali. Almeno in alcuni settori: acciaio, cemento, e tutto ciò che comporta lavorazioni «sensibili», per l’ambiente e la salute pubblica. Come se ce ne fosse bisogno, con una crisi dell’acciaio e del cemento che investe il 50 per cento della sua intera capacità produttiva. E con uno stock di investimenti diretti esteri in Italia di soli 337 miliardi di dollari al 2012, metà della Spagna e della Germania, un terzo della Francia e del Regno Unito. Che cosa spinge le multinazionali a voltarsi dall’altra parte, quando si cita l’Italia? Non solo tasse, mercato del lavoro, pubblica amministrazione invadente e tardigrada. La giustizia non è più solo proverbialmente lenta. È diventata minacciosa.

Il primo passo venne con la sentenza Thyssen, per il rogo in cui perirono a Torino sette operai il 6 dicembre 2007: 16 anni e mezzo di carcere per omicidio volontario all’amministratore delegato Harald Espenhahn. Poi in appello commutati in 10 anni, derubricando il delitto in omicidio colposo ma con l’aggravante del disastro. La Thyssen ha venduto e se n’è andata dall’Italia.

Il 21 maggio scorso è la volta della sentenza d’appello contro Stéphan Schmidheiny, magnate svizzero che controllava la Eternit Italia e i suoi numerosi stabilimenti negli anni 70 e 80. Per diverse migliaia di vittime da mesotelioma polmonare causato dall’amianto del vetro-cemento, l’appello derubrica l’accusa di omissione dolosa di cautele infortunistiche, ma conferma il disastro doloso. E perciò aggrava la carcerazione a 18 anni, rispetto ai 16 del primo grado.

Poi, dopo un anno di braccio di ferro tra magistrati di Taranto e politica, il 4 giugno il governo Letta approva un decreto legge dedicato all’Ilva. A dicembre, un primo decreto era stato necessario per sbloccare i sequestri di impianti e prodotti già realizzati, ordinati da procura e gip di Taranto. Il
secondo decreto cambia segno, fa stato del nuovo sequestro di 8,1 miliardi ai Riva disposto dai magistrati e stabilisce norme di commissariamento per tutte le eventuali imprese sopra i 200 dipendenti la cui attività produttiva comporti pericoli per ambiente e salute. Il commissariamento pubblico potrà così sostituirsi agli organi di amministrazione, con contestuale sospensione dell’assemblea dei soci. E assumere su di sé, tramite un commissario, tutti i poteri e le funzioni per un massimo di ben 3 anni, senza rispondere di eventuali diseconomie a meno che non abbia agito con dolo o colpa grave.

Aggiungiamo gli effetti sulla Parmalat, acquisita dal gruppo Lactalis nel 2011 dopo il più grave crac da malversazione della storia industriale italiana, delle decisioni assunte dalla Procura di Parma sul prezzo di acquisto della controllata americana, nonché dal Tribunale di Roma sul fatto che la Centrale del latte della capitale non apparterrebbe ai francesi.

Sono vicende che, nel dibattito italiano, suscitano orgoglio ed esaltazione. L’Italia sarebbe diventata un modello addirittura «mondiale» di tutela pubblica. In realtà, in nessuna delle decine di paesi in cui l’amianto si è prodotto ed è oggi bandito (sono 52, nella maggioranza del mondo si continua ancora) i tribunali irrogano carcerazioni ventennali per i capiazienda di allora. Né in alcun altro paese è la magistratura a sequestrare e il governo a nazionalizzare impianti industriali per ragioni ambientali. Un’Italia così non dà più certezza sui titoli proprietari, su chi gestisce dopo aver investito, sulla proporzionalità della pena rispetto alle responsabilità. Uno Stato inefficiente per anni nella tutela ambientale, e che poi diventa ex post punitivo e nazionalizzatore: come ha detto Angelo Rocca, acciaiere, nel suo primo discorso da presidente dell’Assolombarda.

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