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FRANCO SILVI/ANSA
Economia

Occupazione, com’è cambiata in Italia

I posti di lavoro sono in aumento. Ma si tratta spesso di posizioni poco qualificate

Oltre 900mila posti di lavoro in più dal 2014. È il risultato che l’ex-presidente del consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, rivendica spesso tra i meriti del Jobs Act, la riforma del welfare approvata nel 2015 dal suo governo. “Si tratta per lo più di lavori precari, inquadrati con contratti a tempo determinato”, replicano gli avversari politici di Renzi, per sminuire gli effetti del Jobs Act.

Chi ha ragione? In questo dibattito pieno di propaganda, c’è uno studioso che ha preferito concentrarsi su altri problemi, ben più importanti, che purtroppo affliggono il nostro sistema produttivo. Si tratta di Emilio Reyneri, professore emerito di sociologia del lavoro all’Università di Milano Bicocca che ha dedicato a questi temi un ampio articolo sul sito Lavoce.info.

Nella sua analisi, Reyneri mette in evidenza che i posti di lavoro creatisi nel nostro paese durante gli ultimi anni sono per lo più di bassa qualità, cioè destinati a personale poco istruito e con una qualifica professionale di livello medio-basso. “Spesso i media concentrano la loro attenzione sul problema del precariato”, dice a Panorama.it Reyneri, “senza però ricordare che in Italia la quota di contratti a tempo  determinato è più o meno in linea con quella di molti altri paesi europei” (siamo attorno al 15% ndr).

Piuttosto, secondo il professore della Bicocca, sarebbe meglio mettere in luce altri aspetti ben più significativi, come appunto la prevalenza di qualifiche medio-basse. Il recente aumento dei contratti a tempo determinato, che fa gridare allo scandalo molti avversari del Jobs Act,  è infatti un fenomeno fisiologico, legato inevitabilmente all’andamento dell’economia”. Anche quando il pil è in ripresa come oggi e i fatturati sono in aumento,  sottolinea lo studioso, “difficilmente le aziende reclutano fin da subito nuovo personale a tempo indeterminato”.

Pochi lavori intellettuali

Almeno inizialmente, le imprese preferiscono proporre un inquadramento a termine ai dipendenti, decidendo poi di stabilizzarli soltanto in un momento successivo, anche quando si tratta di persone non più giovanissime. Gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato offerti dal governo negli anni scorsi, dunque, non sono tanto serviti a creare ex-novo dei rapporti di lavoro stabili. Piuttosto, per Reyneri hanno avuto l’effetto di accelerare la stabilizzazione di certi inquadramenti precari già in essere.  

Meglio allora concentrarsi sul problema dei problemi: l’incapacità del nostro paese di avere una forza lavoro più qualificata. Tra il 2013 e il 2016, infatti, la quota di italiani che svolgono mansioni di livello medio-alto (dirigenti, professionisti intellettuali, tecnici) è salita di circa l’1,1%, quasi la metà rispetto a quella dei nostri connazionali che fanno mestieri meno qualificati (addetti alle vendite e servizi personali, operai semi-qualificati, occupazioni elementari).

Si tratta di un dato che vede il nostro paese ben lontano da  altre nazioni come quelle del Nord Europa, la Svizzera ma anche l’Austria o la Spagna dove, da vent’anni a questa parte, la quota di lavoratori più qualificati cresce a un ritmo pari ad almeno 5 o 6 volte quello degli occupati di livello medio basso (il che è abbastanza normale in una realtà industriale avanzata).

Aziende troppo piccole

Ma perché, viene da chiedersi, il sistema produttivo italiano non è capace di creare posti di lavoro di livello migliore? Alla base di questo fenomeno, secondo Reyneri, c’è un mix di fattori.  Innanzitutto, c’è la ridotta dimensione delle nostre aziende, non solo e non tanto nell’industria quanto piuttosto nel comparto dei servizi.

Un esempio che chiarisce le idee lo si può avere prendendo in esame un settore strategico come il turismo. Nelle grandi aziende, cioè nelle catene alberghiere internazionali, c’è ovviamente la tendenza a reclutare personale di alto livello, che conosce bene le lingue e ha un’elevata formazione scolastica. Nelle piccole imprese, come le migliaia di pensioncine di cui la Penisola è piena, quasi sempre ci si accontenta invece di assumere dipendenti un po’ meno qualificati, dai camerieri agli addetti di cucina, purché sappiano svolgere le mansioni più comuni in una struttura turistica.

La pubblica amministrazione non assume

Oltre che all’abbondanza di piccole imprese,  però, a detta di Reyneri il mercato del lavoro italiano è influenzato da altri due fattori. Il primo è il basso livello che si registra nel nostro paese negli investimenti in ricerca e sviluppo, che tradizionalmente sono un volano per l’occupazione della fascia di popolazione più istruita.

Il secondo e ultimo fattore, tutt’altro che trascurabile, riguarda la pubblica amministrazione, che un tempo era un grande datore di lavoro per i laureati, in primis nelle  scuole ma anche nella sanità o in altri enti. E’ ben noto che da tanti anni la pubblica amministrazione italiana non assume più personale o ne assume poco e con contratti precari. E così, anche se cresce l’occupazione, molti dottori o dottoresse non trovano lavoro.

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Andrea Telara

Sono nato a Carrara, la città dei marmi, nell'ormai “lontano”1974. Sono giornalista professionista dal 2003 e collaboro con diverse testate nazionali, tra cui Panorama.it. Mi sono sempre occupato di economia, finanza, lavoro, pensioni, risparmio e di tutto ciò che ha a che fare col “vile” denaro.

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