Negozi chiusi, tutti i motivi
Economia

Negozi chiusi, tutti i motivi

Il calo dei consumi è indubbio. Ma c'è molto di più: investimenti mancati e scarsa valutazione dell'e-commerce

Non passa settimana senza un bollettino di guerra dal fronte del commercio. L’ultimo, in ordine di tempo, è arrivato dal reparto Moda di Confesercenti per annunciare la chiusura di 4mila negozi dall’inizio del 2013, con una proiezione di oltre 16mila caduti entro la fine dell’anno. Non sono diversi i toni di Confcommercio, che parla di “catastrofe” e lancia allarmi a intermittenza, l’ultimo in occasione della riconferma del presidente Carlo Sangalli.

Che ci sia una crisi dei consumi è sotto gli occhi di tutti e le cause sono purtroppo ben note. Basta guardarsi attorno, a partire da casa propria, per capire che stiamo precipitando in una nuova austerità, in parte obbligata (cos’altro puoi fare quando perdi il lavoro?) e in parte psicologica (ti freni anche se potresti permetterti l’acquisto). Ma la crisi da sola non può spiegare questa “catastrofe” e pensarlo forse rassicura ma non aiuta certo a prepararsi al dopo, a pensare il futuro e la crescita possibile.  

Se non ci si vuole fermare alle comprensibili lamentazioni di fronte a tante saracinesche che si abbassano per sempre e tantissimi lavoratori che si ritrovano da un giorno all’altro senza un’occupazione, sarebbe necessaria una più attenta lettura del fenomeno, che del resto va avanti da qualche anno. Che in Italia il commercio sia sempre stato troppo polverizzato è noto. Questa situazione non ha aiutato né l’irrobustimento né lo sviluppo: abbiamo quindi troppe imprese rimaste piccole, soprattutto gracili e senza le forze finanziarie e culturali per andare avanti. Sarebbe quindi utile un’analisi più approfondita delle chiusure, per avere dati di comprensione più potenti e andare oltre diagnosi del tipo: è morto perché gli è mancata l’aria. Quanti sono i commercianti arrivati al redde rationem perché non investono da anni nella loro attività? Quanti sono quelli anagraficamente anziani e naturalmente stanchi, senza eredi o con eredi assenti e quindi poco propensi ad affrontare una stagione particolarmente difficile? Quanti sono quelli insensibili al cambiamento dei modelli di consumo prodotti dalla diffusione di Internet? E perché solo una minima percentuale è interessata all’ecommerce, come sanno bene anche le associazioni categoria?

Queste e altre domande sorgono spontanee entrando in negozi fermi agli anni 80, dall’arredamento al personale. Non c’è da sorprendersi in un Paese poco propenso alla tecnologia e all’innovazione. Il commercio ne rappresenta una parte importante. Dimenticarlo non aiuta a comprendere quello che sta accadendo. Perché se è vero che c’è la crisi e i consumi calano, è altrettanto vero che il commercio elettronico cresce mediamente di circa il 20% l’anno. Certo, dirà qualcuno, si parte da valori bassi ed è quindi facile andare avanti. Ma è anche vero che aumenta a ritmo vivace la quantità di persone che trovano più comodo e conveniente comprare on line. Il commerciante in declino percepisce solo la minaccia, inveisce contro la crisi, si avvita su se stesso. Quelli dinamici, che ci sono, vedono invece un’opportunità per farsi conoscere, per ridurre i costi, per offrire servizi nuovi e migliori ai propri clienti.

Non è filosofia. Andate a guardare la rassegna dei negozi più innovativi del mondo proposta di recente in occasione dell’annuale Innovation Retail Award per la parte italiana organizzato da Kikilab . Dall’hamburgheria di New York che usa il crowdsourcing per far diventare i clienti promoter alla catena di elettronica brasiliana che lancia i personal shop su Facebook ce n’è abbastanza per capire che l’ecommerce non sta uccidendo il commercio, lo sta solo cambiando, profondamente. E anche la più tradizionale delle drogherie deve fare i conti con smartphone, tablet e similia (succede in Germania, ad esempio). Forse i commercianti italiani (e le loro associazioni) mentre contano i caduti dovrebbe anche cominciare a interrogarsi sul mondo che cambia e sulla loro capacità di affrontare il nuovo. Preoccuparsi del presente ma pensare anche al futuro. Perché non basta piangere per crescere.

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Giovanni Iozzia

Ho lavorato in quotidiani, settimanali e mensili prevalentemente di area economica. Sono stato direttore di Capital (RcsEditore) dal 2002 al 2005, vicedirettore di Chi dal 2005 al 2009 e condirettore di PanoramaEcomomy, il settimanale economico del gruppo Mondadori, dal 2009 al maggio 2012. Attualmente scrivo su Panorama, panorama.it, Libero e Corriere delle Comunicazioni. E rifletto sulle magnifiche sorti progressive del giornalismo e dell’editoria diffusa.  

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