Mps: monte minato
Economia

Mps: monte minato

Lo scandalo Mps mette in difficoltà Bersani e Pd. Ma colpisce anche la Banca d’Italia. E mentre l’ombra dei derivati si allunga sull’Unipol, una nuova bomba sta per scoppiare a Siena: l’operazione Chianti Classico.

Di trappole nel percorso di guerra che porta al voto ce ne sono tante e Pier Luigi Bersani lo sa bene, ma mai avrebbe potuto immaginare che la sua operosa macchina da guerra (quella «gioiosa» appartiene di diritto ad Achille Occhetto nel 1994) sarebbe potuta incappare in quelle mine a cielo aperto chiamate derivati. Invece sono finiti nei guai prima il Monte dei Paschi di Siena (scandalo sul quale Panorama è in grado di rivelare nuovi importanti risvolti), poi l’Unipol. Altro che finanza rossa, finanza in rosso: con un impatto politico negativo, stando ai sondaggi.

Iniziamo dall’Unipol, mina montante. La Consob ha spulciato il portafoglio titoli strutturati della compagnia di assicurazioni controllata dalla Lega delle cooperative e ha trovato che non è conforme ai principi contabili internazionali. Il bilancio 2011 si è chiuso con 28 milioni di perdite in più e una riduzione del patrimonio pari a 49 milioni. La stessa «non conformità» è stata rilevata nelle tre società acquisite dal gruppo Ligresti (Fonsai, Milano Assicurazioni, Premafin).  I bilanci vanno riscritti e occorrono nuove riserve per 650 milioni. Insomma, i magheggi finanziari si trasformano in giganteschi buchi neri.

Un problema del resto molto diffuso. Secondo le stime della Banca dei regolamenti internazionali, che associa la maggior parte delle banche centrali, nel mondo ci sono titoli trattati «fuori sportello», cioè con contratti privati, per 483 mila miliardi di euro, circa 10 volte quanto produce in un anno l’intero pianeta. Sono dappertutto, anche in Italia: il Tesoro ha derivati per 160 miliardi, 35 miliardi sono nei bilanci dei comuni, 45 miliardi nelle imprese industriali. Le banche non sanno come smaltirli. Il Montepaschi è salito da 9 a 18 miliardi negli ultimi 3 anni.

I libri contabili del Monte, passati al setaccio dall’amministratore delegato Fabrizio Viola, hanno fatto già emergere prodotti come Alexandria, principale pietra dello scandalo, Santorini, Anthracite. Eppure, riservano ancora molte sorprese. Come Chianti classico. Ha un nome senza dubbio più casereccio, ma non per questo è meno pericoloso. Potrebbe costare anche 500 milioni oltre a quelli persi con gli altri derivati. Ben due consigli hanno acceso luce rossa e gli amministratori si sono divisi sulla nuova bambolina che esce dalla pancia della grande matrioska.

Nel novembre 2010 le banche del Monte propongono ai clienti obbligazioni Abs Casaforte 2040 per un ammontare di 1 miliardo e mezzo di euro. Il Mps non è l’emittente, ma il promotore. Chi stacca le cedole è una società, la Casaforte srl, la quale ha come sottostante immobili che appartengono alla banca. Insomma, una cartolarizzazione per recuperare denaro fresco. Il sottoscrittore paga una commissione e si compra anche un derivato con un costo pari al 10 per cento del valore nominale. Quanto ci guadagna? Secondo il prospetto informativo, grosso modo quanto un titolo a basso rischio; solo nel 2 per cento dei casi può intascare di più. Il Mps aveva messo a bilancio una plusvalenza di 450 milioni. Ma adesso scatta l’allarme. Quella che sembrava una bella trovata, battezzata Chianti classico, rivela pessime sorprese, come risulta dai verbali del consiglio di amministrazione consultati da Panorama.

Se ne parla nella seduta del 27 novembre 2012 (tema i Monti bond): il consigliere Angelo Dringoli dichiara il suo disagio per aver scoperto le «rilevanti conseguenze economico-patrimoniali delle operazioni Alexandria, Santorini e Chianti classico» e si decide di rinviare la discussione di merito alla  riunione successiva. Il consigliere Michele Briamonte mette agli atti la sua preoccupazione e solleva la questione del «mandate agreement» legata al contratto Alexandria, con le perdite di 740 milioni a esso collegate. L’avvocato Briamonte, stimato professionista lontano dalla politica, fa parte dello studio Grande Stevens (si è occupato fra l’altro dell’eredità Agnelli) ed è uno dei nuovi arrivati nel consiglio con Alessandro Profumo.

In quella sede, il cda approva l’aumento da 1,5 a 2 miliardi di euro per gli aiuti governativi. E l’11 dicembre si affronta il tema Chianti classico: Casaforte «ha sofferto dell’andamento dei prezzi di mercato e dello spread e oggi l’incentivo del cliente a rivendere non è marginale» esordisce Viola. Per il Monte si tratta di consolidare nel bilancio Casaforte e riprendere pieno possesso degli immobili la cui valutazione finora è basata sugli affitti.

Si oppone il consigliere Lorenzo Gorgoni, che proviene dalla Banca del Salento (ha ricevuto un avviso di garanzia dalla Procura di Roma per il prodotto finanziario 4You) e ricorda il via libera della Consob e della Banca d’Italia (la quale ha però imposto di affiancare anche Imi Sanpaolo e ciò riduce il vantaggio per Mps). In ogni caso, insiste, i contratti hanno un sottostante reale. Gettare il bimbo con l’acqua sporca avrebbe un impatto anche sul patrimonio della banca. Sulla stessa linea il vicepresidente Turiddo Campaini (Unicoop Firenze). Insomma, la vecchia guardia si difende.

Viola replica evocando il rischio vero: «Potrebbe essere un buyback a generare un contraccolpo reputazionale ingenerando i dubbi sulla ragione dell’acquisto». E aggiunge: «I titoli Casaforte sono come una sorta di deposito dal quale il cliente può prelevare, di fatto, quando vuole e reinvestire su titoli a rendimento maggiore. E l’incentivo a fare ciò è significativo ». Insomma, un problema simile a quello che si era posto per i subprime negli Stati Uniti. Un altro trabocchetto in un bilancio aggiustato per fare cassa.

Da Londra, intanto, affiorano nuovi dettagli su Alexandria. Secondo la ricostruzione di un dealer, nel 2005 Gianluca Baldassarri, il capo della finanza, chiamato il Gordon Gekko di piazza del Campo, avrebbe scovato il sistema per tirar fuori 2,8 milioni di euro da un marchingegno industrioso, in pratica scambiando i 400 milioni del contratto Alexandria con un veicolo parallelo chiamato Skylark e speculando su una differenza di 10 centesimi nei tassi di interesse. Così fan tutti? Non proprio: alcuni operatori hanno protestato perché Baldassarri avrebbe dato le informazioni solo a «pochi clienti selezionati». Lo stesso ex dirigente del Monte avrebbe fatto rientrare in Italia 20 milioni di euro con lo scudo fiscale. Soldi suoi o copertura?

Le transazioni finanziarie legate alla vendita dell’Antonveneta sono una giungla inestricabile. Nel 2007 la banca di Padova viene pagata 10,3 miliardi (compresi costi aggiuntivi). Un prezzo certamente troppo alto: la olandese Abn Amro l’aveva presa nel 2005 per 6,6 miliardi. Il Santander, al quale era finita la Abn, la mette in vendita affidandola alla Rothschild, che sostiene di avere più pretendenti: la francese Bnp (che aveva acquistato la Bnl 2 anni prima) sarebbe disposta a offrire 8 miliardi. Il Santander ne vuole 9 e in contanti, senza nemmeno guardare i bilanci: 10 milioni a sportello, più della media.

Anche per questo viene creato il castello dei derivati. Gli uomini della Banca d’Italia hanno individuato, nelle loro ispezioni del 2012, numerose anomalie, alcune delle quali legate proprio ai contratti con la Nomura (Alexandria) e al prestito Fresh con la Jp Morgan (che è anche azionista del Monte) per aumentare il capitale. E hanno chiesto chiarimenti. I vertici di Palazzo Koch si sono mossi con piedi di piombo. Ora, 2 anni dopo, hanno annunciato pesanti sanzioni. Ma la frittata è fatta.

Anna Maria Tarantola, allora capo della vigilanza, è stata ascoltata come persona informata dei fatti nel suo attuale ufficio di presidente della Rai. Mario Draghi (era lui il governatore) è volato a Milano per incontrare Vittorio Grilli alla vigilia del suo intervento in Parlamento. La preoccupazione del presidente della Bce è evidente, mentre sui media che muovono i mercati (dalla Reuters al Financial Times) ci si comincia a chiedere se i controllori hanno controllato davvero. Per il New York Times, «lo scandalo ha implicazioni politiche e persino europee».

Ma torniamo al consiglio dell’11 dicembre. Profumo espone le condizioni del ministero dell’Economia per concedere i 3,9 miliardi. Vuole che la decisione sia approvata dall’assemblea che si tiene il 25 gennaio. Però il presidente sottolinea che a quel punto deve emergere un mandato pieno al cda «di procedere con la eventuale conversione degli strumenti stessi. In sostanza si vuole che, nel caso in cui la banca non sia in grado di procedere al rimborso degli strumenti, questi possano essere convertiti senza ulteriore passaggio in assemblea». Dunque l’intervento pubblico porterà il Tesoro fra gli azionisti; era chiaro fin da allora. Grilli martedì 29 gennaio dirà a deputati e senatori che non si sta salvando una banca in default e i titoli «non sono un contributo a fondo perduto». Il Monte ce la può fare da solo? Il consigliere Gorgoni chiede l’aiuto di un partner privato. E Profumo: «Nel concreto, allo stato attuale, non ci sono soggetti disponibili, né italiani né esteri». In pubblico dirà che si sta cercando. Angelo Dringoli propone di cedere degli asset. E il presidente ribatte: «Ma così si riducono anche i ricavi». Insomma, si esclude di rivendere l’Antonveneta, del resto non esistono compratori.

C’è spazio per un ulteriore spinoso problema. L’ordine del giorno recita: «Costi del personale non correttamente contabilizzati». È una grana da 150 milioni che si porta dietro l’allontanamento consensuale di Daniele Bigi, l’ultimo alto dirigente della gestione Mussari rimasto in sella (era presente alle conference call, nascoste all’attuale consiglio, con la Nomura). Tra i consiglieri emerge la preoccupazione di chiudere il rapporto senza troppo clamore. Tira le fila l’amministratore delegato Viola: «La continuità aziendale è importante e ne verrà tenuto conto per le modalità con cui verrà risolto il rapporto con il dott. Bigi e il dott. Massacesi (Marco, altro top manager, ndr)».

Si è fatto tardi. Alla fine, viene annunciato che la cena annuale questa volta si terrà all’Enoteca italiana. E nei bicchieri, naturalmente, Chianti classico dei colli senesi.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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