Mediobanca e Alberto Nagel, un rottamatore in salotto
Economia

Mediobanca e Alberto Nagel, un rottamatore in salotto

Le grandi famiglie non esistono più. Le partecipazioni che la Mediobanca considerava strategiche si sono rivelate un cattivo affare. E Alberto Nagel rischia di tagliare, insieme ai patti, anche il ramo che regge l’istituto

Chissà se di Telecom hanno mai parlato, partecipando insieme alle riunioni del Club Bilderberg, César Alierta, il capo della Telefónica,Alberto Nagel, amministratore delegato della Mediobanca. Certo è che l’atteggiamento di Piazzetta Cuccia verso una crescita del «socio industriale» nell’ex Sip è sempre stato favorevole, e l’epilogo di oggi lo conferma. Del resto, l’impronta digitale del socio Mediobanca si riscontra in tutte le doloranti vicende Telecom dalla privatizzazione del 1997 in qua, ma soprattutto nell’opa Olivetti del 1999, nel successivo passaggio di consegne alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera nel 2001, all’avvento della Telco nel 2007 e, ora, nella cessione agli spagnoli. In regia, dunque, c’è stato prevalentemente lui, Nagel, il bocconiano del 1965 che, entrato in Mediobanca nel 1991 alla segreteria generale, ne è divenuto capo 6 anni dopo e ha percorso i gradini interni fino a diventare direttore generale 10 anni fa e poi dal 2008 amministratore delegato.

Un rottamatore del vecchio capitalismo del salotto buono, dei patti di sindacato che sorreggevano la cupola delle grandi famiglie italiane, quasi un rivoluzionario, come ama in fondo accreditarsi lui? Oppure, semplicemente, uno che ha cercato di difendere lo status quo e il potere che gliene derivava, senza riuscirci, come sostiene chi non lo ama? «Più che un rottamatore, mi ricorda un Badoglio della finanza. Dapprima eroe fascista finché si trattava di conquistare l’Etiopia, poi voltagabbana con pretesa d’eroismo» commenta sprezzante un banchiere che non apprezza il «giovane anziano», come lo definì Cesare Geronzi quando fu espulso dalle Generali per la congiura targata Nagel.

«Generali, Italmobiliare, Rcs, Fonsai, Telco: queste sono le nostre cinque partecipazioni strategiche, le altre siamo liberi di venderle in ogni momento» prometteva Nagel nel 2008, parlando con analisti (e perfino giornalisti). Quei patti gli piacevano. Oggi ha cambiato idea e li sta smontando, a partire da Rcs e Telecom. Ma cos’è successo, da allora? Certo le grandi famiglie capitalistiche italiane non esistono praticamente più, a eccezione degli Agnelli, che però guardano ormai più all’estero che all’Italia. Ma la Mediobanca, fino a ieri, le ha difese senza lesinare munizioni.

Dal settembre 2009 a oggi, mentre la borsa italiana perdeva il 34 per cento, la Fonsai dei Ligresti è praticamente fallita, l’Italmobiliare dei Pesenti ha lasciato sul terreno il 38 per cento, la Rcs cara agli Agnelli il 75, la Telecom il 49 e le Generali «appena» il 37, grazie alle cure del nuovo amministratore delegato Mario Greco. Un disastro. Una miliardata tonda di perdite, al netto dei dividendi incassati.

E non basta. La fusione Fonsai ha lasciato molti strascichi giudiziari. Uno ha coinvolto anche Nagel, un’indagine della Procura di Milano per ostacolo alla vigilanza a proposito del famoso «papello» scritto da Jonella Ligresti, da lui siglato, contenente un elenco di clausole di vantaggio per la famiglia collegate alla vendita alla Unipol. Al Wall Street Journal il banchiere ha riconosciuto la paternità del foglietto, ma ha detto di averlo firmato solo per compassione, di fronte all’ottantenne Salvatore Ligresti che minacciava il suicidio. Un cuore tenero. «Ma Mediobanca, quella vera, i papelli semmai li dettava e non aveva bisogno di firmarli o di siglarli. Bastava la parola, perché ne aveva una sola» commenta il banchiere di prima.

E ancora: l’Impregilo è stata attaccata e scalata dal socio Salini, in aperta ostilità contro lo status quo voluto dalla Mediobanca e costruito attorno a Ligresti, Gavio e Benetton; a Parma il tribunale medita di annullare l’acquisizione della Lactalis americana fatta fare dai soci francesi a un prezzo eccessivo, periziato dalla Mediobanca; i 60 milioni investiti nel 2011 nel Montepaschi sono stati dilapidati; nella ristrutturazione della Pirelli Piazzetta Cuccia non ha avuto ruolo, i soci Malacalza hanno attaccato infischiandosene della sua presenza e la soluzione è avvenuta senza la sua regia; senza dimenticare la «toppa» di Andrea Bonomi, benedetto da Nagel, nel primo assalto alla Bpm per trasformarla in spa.

La Mediobanca postsalotto rischia di tagliare il ramo sul quale era seduta da cinquant’anni, il potere finanziario. E di andare in crisi sul proprio patto di sindacato, in scadenza (entro il 1° ottobre le disdette), oggi al 42 per cento ma destinato a subire le annunciate uscite di Fonsai, Generali e forse Italmobiliare, scendendo tra il 33 e il 36 per cento. Il nuovo patto, alla fine dell’esercizio 2013-2014, dovrà decidere se rinnovare o confermare il management. La pagella di Nagel avrà la sufficienza? 

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Sergio Luciano