Matteo Renzi visto da Cesare Geronzi
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Economia

Matteo Renzi visto da Cesare Geronzi

«È un cambio di stagione che investirà tutti i poteri forti. A partire da Confindustria e sindacati» Il successo di Renzi visto dal grande vecchio della finanza. Che sul «rischio Italia» dice...

La vittoria di Matteo Renzi, un Enrico Letta consumato a forza di temporeggiare, l’Italia di nuovo sotto il tiro dei mercati finanziari, le banche che perdono centralità mentre i patti di sindacato si dissolvono lasciando scoperto il capitalismo italiano... C’è la sensazione di essere a un punto di svolta e che si chiuda il ciclo cominciato in quell’orribile 2011, quando stava per saltare l’euro. Cesare Geronzi guarda con passione a questa nuova fase dal suo ufficio di presidente della Fondazione Generali a Roma in via Venti Settembre, accanto al ministero della Difesa. Il 6 aprile 2011 è stato spinto a dimettersi dalla presidenza della compagnia di assicurazioni, sfiduciato dall’azionista più importante, quella Mediobanca che aveva presieduto dal 2007 al 2010. Adesso si occupa di opere di finalità sociale, come recita lo statuto, ma il banchiere «di sistema», figura importante della cosiddetta Seconda repubblica, resta un osservatore privilegiato e si augura che la scossa nel Partito democratico acceleri il cambiamento politico, favorendo un chiarimento di fondo: «Se quel che è successo dal 2011 doveva impedire l’arrivo di Renzi, ebbene Renzi è arrivato. Bisogna vedere se non si è capito nulla allora e se oggi ci si è dovuti arrendere».

Il cambio di stagione riguarda tutti i poteri forti?
Certo, a cominciare dagli interessi organizzati. La Confindustria, per esempio, è ancora ampiamente consociativa. Il potere dei sindacati resta esorbitante. Ha ragione Sergio Marchionne, il quale ha cercato di scuotere questa foresta pietrificata che rappresenta un grande ostacolo agli investimenti, e non solo quelli stranieri.

È uno snodo decisivo per Renzi.
Qui si valuterà anche la sua consistenza, la sua linea politica e, quel che è ancora più importante, la sua tempra.

Nel 2011 Pier Luigi Bersani voleva andare alle elezioni dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi.
Perché è un politico avveduto. Servivano le elezioni. Le regole politiche sono queste. Se poi le regole lasciano il posto alle convenienze... ebbene si crea il parterre necessario per la confusione. Adesso l’auspicio è che Renzi avvii la ricomposizione di un tessuto politico che non è ideologicamente definito, prenda i problemi per quelli che sono e li affronti in modo democratico. Quel che comporta la presenza di un Renzi vincitore all’interno del Pd avrà un effetto consistente nelle altre strutture politiche.

E come vede in prospettiva Berlusconi, condannato, fuori dal Parlamento, che rifonda Forza Italia?
Berlusconi è un personaggio indomito, tuttavia l’arrivo di questi nuovi protagonisti (non ancora una nuova classe dirigente) modifica anche il mondo berlusconiano. Resta sempre all’abilità degli uomini cogliere le opportunità. E non è detto che i cambiamenti siano da temere perché negativi.

Del resto, un governo che non agisce...
Non serve, aggroviglia sempre più una matassa della quale non riesce a tenere il filo. Sulla giustizia s’è fatto qualcosa? E sulla legge elettorale? Letta è un uomo abile e preparato, non un leader.

Tutto ciò aumenta l’incertezza e molti segnali indicano che torna il «rischio Italia».
In realtà, lo si enfatizza ogni volta che conviene a qualcuno. Occorre saper distinguere se esiste veramente o a chi serve evocarlo. Le decisioni delle autorità debbono essere indipendenti e non condizionate come nel 2011.

L’attacco allora è partito dall’esterno o dall’interno?
Dall’esterno, con numerosi sostenitori dentro il Paese. È stato un grave errore, per esempio, consentire ai cittadini italiani di ritenere che Mario Monti fosse un candidato esterno.

E non lo era?
In parte sì. Ci sono stati troppi conciliaboli; fin da luglio si prefigurava un grande cambiamento.

Poi arriva la Bce con la lettera del 5 agosto che chiede all’Italia (e solo all’Italia) di anticipare il pareggio di bilancio.
È possibile chiederlo agli italiani perché non hanno la forza per far prevalere le proprie ragioni, né le idee per gestire la crisi. Un esempio di questi giorni: non si decide al Consiglio dei ministri sul valore del capitale della Banca d’Italia senza aver prima ottenuto il via libera delle autorità europee, come peraltro è previsto.

Secondo la banca centrale tedesca, è un ritorno alla finanza creativa.
Chi lo sostiene è legittimato a pensarlo.Ma non si deve prestare il fianco ai tedeschi e dire che la rivalutazione del capitale della banca centrale italiana è uno schema per sostenere le banche e al tempo stesso facilitare tassazioni utili per il nostro bilancio.

Quale sarebbe, invece, la via maestra?
Qualcuno dovrà pur dire perché il limite del 3 per cento al rapporto deficit/pil la Francia può non rispettarlo, e non solo la Francia; o perché in Spagna le cose vanno meglio; perché l’Irlanda esce dalla zona critica; si dovrà dire chiaramente chi doveva fare che cosa e non lo ha fatto. Se siamo in Europa, e qui dobbiamo restare, allora quando abbiamo problemi essi non vanno nascosti, ma affrontati tutti insieme, altrimenti si strozza l’economia più di quanto non si sia fatto finora.

E così cresce la protesta contro l’euro.
È una moneta che non può essere rimessa in discussione, debbono però essere riviste alcune regole. Il professor Giuseppe Guarino non ha torto: non si può cambiare un trattato con un regolamento fatto passare, per di più, sotto gli occhi di chi non si rende conto di che cosa si sta decidendo.

Lo dicono anche a Berlino.
Quando è stato firmato il trattato di Maastricht, tutti erano convinti che avrebbe dovuto sostenere la prova del mercato, la prova della sua tenuta. E molti firmatari sostenevano che non potesse reggersi sul rispetto di una mera formula matematica. Infatti, non ha funzionato.

Oggi si aggira l’ostacolo introducendo correttivi. Secondo lei è il momento di rivedere l’intero trattato?
Di rivederne alcuni meccanismi che non possono più tenere soprattutto perché l’Europa ha tradito uno dei suoi obiettivi fondamentali: l’unione politica. Una moneta basata su un sistema di politiche economiche non armonizzate non può che dare questi risultati. Occorre prenderne atto e mettere in cantiere una grande riforma condivisa da tutti.

Standard & Poor’s abbassa il rating delle Generali, Moody’s lancia l’allarme assicurazioni: si prepara una nuova tempesta
Le Generali sono un pretesto, in realtà è un attacco al debito pubblico italiano e non credo a nuove tempeste.

Le banche, comprando Btp, non hanno ridotto lo spread con il Bund tedesco?
Lo spread lo ha abbattuto Mario Draghi inondando di liquidità il sistema. In Italia ha consentito il disimpegno delle aziende bancarie dall’emissione di loro titoli a tasso elevato e poi l’investimento in Btp. Esse però si sono sottratte alla funzione principale che è loro propria: il finanziamento alle imprese e alle famiglie. In questo modo non hanno fornito il contributo necessario alla crescita che era, poi, uno degli obiettivi di Draghi.

Le banche italiane non sono così solide come si dice.
Sono a rischio se accettiamo che i titoli italiani lo siano. Le società di rating scimmiottano ciò che ha detto l’America dell’Europa: ogni paese fa quel che vuole, la Germania crea diseguaglianze addirittura dentro la Ue. Questa è la seconda bordata, rivolta soprattutto al governo.

Il Leone di Trieste, dunque, non è sott’attacco?
Le Generali non sono scalabili, l’ho detto anche quando ero presidente. Comunque, l’Italia deve fare muro, e di cemento armato, poi lasciar lavorare il management che sta facendo bene, ha mosso le acque limacciose.

Si stanno sciogliendo i patti di sindacato con i quali ha incrociato le armi, persino in Mediobanca...
C’è un avvio.

Ma ciò non indebolisce il sistema finanziario?
Un sistema che si tiene sindacando la proprietà è di per sé incapace di camminare con le proprie gambe. I patti si fanno proprio quando l’azionariato è debole.

Romano Prodi ha detto che la Mediobanca di Enrico Cuccia ha messo in frigorifero l’economia italiana. Anche lei ne ha sentito il gelo.
Qual era il disegno di Cuccia? Salvare l’industria privata dall’invadenza della mano pubblica o mantenere un potere non sindacato dall’Iri? Io credo alla seconda ipotesi. Ma la privatizzazione di Mediobanca secondo il suo progetto non ha retto molto. Ricordo le riunioni nelle quali era nato il progetto Ubibanca, cioè la fusione tra la Commerciale, il Credito italiano e il Banco di Roma. Si opposero il Credit perché aveva altre mire e la Commerciale per salvare la propria diversità culturale.

Invece è stata fagocitata in Banca Intesa.
I fatti sono quelli, il resto appartiene ai giudizi politici.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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