Mario Monti, non ti scordar dell’Irap
Economia

Mario Monti, non ti scordar dell’Irap

Ridurre l’Irpef non è la via maestra per stimolare la crescita: sono le imposte sulle attività produttive il vero ostacolo allo sviluppo

Tasse e ancora tasse, anche quando si dice che le si sta diminuendo: l’ultima manovra del governo non sfugge purtroppo alla regola. È vero che le aliquote Irpef dei primi due scaglioni sono state diminuite, ma se si va a vedere l’insieme della manovra si scopre che la pressione fiscale complessiva non diminuisce e anzi secondo alcune stime aumenta (sia pure leggermente). Il trucco mediatico consiste nel gridare a squarciagola «vi abbassiamo l’Irpef» e nel sussurrare a bassissima voce «però vi aumentiamo l’iva» e «vi togliamo deduzioni e detrazioni».

Qui non voglio polemizzare, però. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione, piuttosto, è la straordinaria continuità fra le politiche fiscali di tutti i governi degli ultimi 20 anni, compreso naturalmente quello attuale. Qual è il filo rosso, qual è l’idea comune che unisce destra e sinistra, governi politici e governi tecnici?

Non certo l’idea di aumentare le tasse, perché questo è un tratto distintivo dei governi di sinistra, compreso quello attuale che è anch’esso un governo delle tasse. No, l’idea comune è che la manovra sulle tasse, sia quando è fatta di timide riduzioni (come nel 2001-2005), sia quando è fatta di aumenti o «rimodulazioni» (ossia di spostamenti del carico fiscale da un gruppo sociale all’altro), debba servire a un unico scopo: aumentare
il consenso elettorale di chi la fa.

E infatti le tasse prese di mira dal ceto politico sono quasi sempre quelle che toccano l’amplissima platea delle famiglie, ovvero le tasse sul reddito (Irpef) e sulla casa (Ici, ora Imu). Restano sullo sfondo, invece, le tasse che gravano direttamente sull’attività produttiva: Ires, Irap, contributi sociali. Qualche volta se ne parla, qualche volta le si ritocca (per lo più spostando il carico, senza abbassarlo), ma un’azione decisa su questo tipo di tasse non parte mai. E la ragione è semplice. Le tasse sull’attività produttiva toccano direttamente una frazione troppo piccola del corpo elettorale, più o meno 1 elettore su 5, mentre le tasse sul reddito e sulla casa toccano praticamente tutti.

Di per sé questa preferenza dei politici per le «tasse demagogiche» non ha niente di sbagliato. È normale che i politici, affamati di voti, promettano quel che piace al maggior numero possibile di persone. Il problema, però, comincia a porsi nel momento in cui il discorso sulle tasse viene accoppiato al discorso sulla crescita. Qui le cose non funzionano più. L’idea che ridurre l’Irpef e l’Ici sia la via maestra per stimolare la crescita è sostanzialmente sbagliata, perché non sono queste le tasse che la frenano di più. Le tasse che frenano sostanzialmente la crescita sono le imposte sull’attività produttiva (Ires e Irap), che spengono la spinta a intraprendere, e i versamenti contributivi, che disincentivano le assunzioni. L’Italia è agli ultimi posti in Europa sia per tasso di crescita sia per tasso di occupazione, e non casualmente occupa invece il primo posto in un’altra speciale graduatoria, quella del prelievo della pubblica amministrazione sul reddito prodotto.

Consideriamo, a titolo d’esempio, le società non finanziarie, ossia il cuore della nostra economia. Fatto 100 il reddito da esse generato, la quota che resta nelle tasche dei produttori è appena il 53 per cento perché il restante 47 lo intasca la pubblica amministrazione. Se immaginiamo il prodotto come una torta divisa fra tre commensali (i lavoratori dipendenti, i lavoratori indipendenti, lo Stato), possiamo dire che nel 2010 il boccone più grosso (47 per cento) l’ha ingoiato lo Stato, mentre i lavoratori dipendenti hanno dovuto accontentarsi del 38 per cento e i lavoratori autonomi addirittura del 15. In nessun altro paese europeo le cose vanno così. Il prelievo dello Stato sul reddito prodotto è del 42 per cento in Francia, del 35 nel Regno Unito, del 32 in Spagna, per fermarsi ai paesi con cui di solito ci confrontiamo.

E i risultati si vedono. Se raggruppiamo i paesi in base al loro livello di tassazione sulle società non finanziarie, possiamo constatare che il tasso di crescita del reddito pro capite varia inversamente al prelievo. Nel gruppo con il prelievo più basso (27 per cento), in cui rientrano la Slovacchia e la Repubblica Ceca, il tasso di crescita 2000-2010 è del 2,8. Nel gruppo successivo, che include il Regno Unito e la Spagna, il prelievo sale al 33 mentre il tasso di crescita scende all’1,1. Nel gruppo ancora successivo, in cui troviamo Francia e Svezia, il tasso di crescita scende allo 0,5. E infine c’è l’Italia: prelievo al 47 per cento, crescita addirittura negativa (-0,9 per cento).

C’è bisogno di altro per auspicare una svolta?

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Luca Ricolfi