Mario Draghi, ecco il piano dell'uomo che salverà l'euro
Economia

Mario Draghi, ecco il piano dell'uomo che salverà l'euro

Nei giorni che decideranno il futuro dell’Europa tutti gli occhi sono puntati su Draghi: il presidente della Bce è l’uomo che può farci uscire dalla più grave emergenza del dopoguerra. E in vista del vertice del 28 giugno ha un piano

Prima di partire per il G20 di Los Cabos in Baja California, Mario Draghi ha chiamato nel suo ufficio al 35esimo piano dell’Eurotower di Francoforte, in Kaiserstrasse 29, Ulrich Bindseil, che dal 1° maggio ha rimpiazzato alla guida delle operazioni di mercato Francesco Papadia, pilota della macchina dell’euro fin dal 1° gennaio 2002. E ha lasciato istruzioni precise. L’apocalisse greca è rinviata, ma tornano nel mirino Spagna e Italia. Lo spread avanza con la sua falce acuminata. Guai ad abbassare la guardia.

I 10 giorni che possono salvare l’euro saranno un percorso di guerra. I mercati sono pronti a testare fino in fondo la tenuta del sistema, almeno fino alla conclusione del consiglio europeo di venerdì 29 giugno. «O la moneta unica c’è, e allora devono cambiare molte cose, o è solo una finzione e allora gli operatori la mollano» sintetizza Domenico Lombardi della Brookings institution (think tank di Washington), fra i consulenti del G20. Lo riconosce lo stesso presidente della Bce: «Quella configurazione che abbiamo avuto per 10 anni e che era ritenuta, direi forse in maniera miope, essenzialmente sostenibile si è dimostrata insostenibile, a meno che non vengano effettuati ulteriori passi». E mette le mani avanti: «Garantiremo sempre liquidità sufficiente, ma la politica monetaria non può colmare tutti i vuoti lasciati dalla politica». Che cosa vuole dire?

«Nessuno riesce a leggere dietro quella faccia da poker» sostiene Carsten Brzeski, economista della olandese Ing. La bozza che sarà discussa al vertice Ue parla di «agenda per la crescita» e di «portare a uno stadio superiore l’unione monetaria». Una fonte vicina alla Bce spiega: «I governi debbono proclamare in modo solenne che difenderanno fino in fondo l’euro». Dal Messico arriva un impegno dei grandi paesi a sostenere sviluppo e occupazione, con un assegno di 456 miliardi di dollari in più per il Fondo monetario internazionale. La Germania sembra isolata, però in Europa è un’altra musica. E Draghi, che guida l’unica istituzione federale dotata di strumenti per agire, cerca una copertura per aggirare le trincee tedesche.

Con il Principe di Niccolò Machiavelli in una mano e nell’altra gli esercizi di Ignazio da Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, prepara le frecce che gli sono rimaste. La prima è il tasso ufficiale di interesse: può scendere di mezzo punto, arrivando a 0,50. La Bce tiene la mossa per i primi di luglio. La seconda è introdurre operazioni twist come fa la Fed, cioè vendere titoli a breve e col ricavato comprare titoli a lungo per fare abbassare i tassi senza aumentare la liquidità. In un bilancio da 3 mila miliardi (una volta e mezzo il debito italiano), i bond acquistati direttamente ammontano a 284 miliardi, quelli offerti in garanzia di prestiti molti, molti di più. C’è poi un nuovo corposo rifinanziamento delle banche. Tra il 21 dicembre e il 29 febbraio sono stati concessi 1.000 miliardi di euro per tre anni all’1 per cento. L’operazione ha preso tutti di sorpresa e non è piaciuta ai tedeschi. Jens Weidemann, l’ex consigliere di Angela Merkel diventato capo della Bundesbank, ha scritto una lettera di protesta finita sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, giornale sempre vicino alla banca centrale tedesca. Draghi non ha fatto una piega. Poi, il 9 marzo, durante una conferenza stampa, ha lasciato cadere la sua stilettata: «Quella scelta è stata votata all’unanimità» ha detto gelido.

Fra una settimana presenterà un nutrito carnet al consiglio europeo: un tetto agli spread oltre il quale l’Eurotower si impegna a intervenire e la possibilità di fare operare il meccanismo di stabilità come una banca, così potrebbe prendere euro dalla Bce e comprare titoli dei paesi in difficoltà (due proposte francesi); mettere in comune in un fondo i debiti oltre il 60 per cento del prodotto lordo (idea del Consiglio degli economisti tedeschi); introdurre gli eurobill, titoli emessi dai singoli paesi ma garantiti dalla Ue (abile aggiramento del veto agli eurobond). A tutto questo s’aggiunge l’unione bancaria con tanto di vigilanza unificata (Berlino frena), l’unione fiscale (e qui le resistenze sono francesi), l’assicurazione europea sui depositi per evitare la corsa agli sportelli, i project bond per investimenti specifici.

Una grande architettura preparata da un ambizioso architetto. Anche le sorti dell’Eurolandia, dunque, sono nelle mani di un tecnico? Il romano dai nervi d’acciaio, come lo chiamano a Francoforte, in realtà fa politica senza veli. È successo il 4 agosto 2011 con la lettera firmata insieme al suo predecessore Jean-Claude Trichet, ma concepita in via Nazionale. E da allora è stata una vera e propria escalation, fino a dettare l’agenda della Ue. Il fiscal compact è una idea sua, poi è arrivato il growth compact. Adesso l’unione bancaria e soprattutto un’agenda decennale per il rafforzamento dell’unione, vero e proprio manifesto annunciato il 31 maggio al Forum economico di Bruxelles. Ogni volta, Angela Merkel lo ha seguito. Perché si fida e per convenienza. «La Kanzlerin cerca un deus ex machina che faccia ingoiare ai suoi elettori ricette indigeste» sostiene una fonte tedesca.

Draghi ha un comitato esecutivo debole. Il suo vice, il portoghese Vitor Constancio, è ormai in scadenza. Benoit Coeuré non ha mai fatto il banchiere centrale, come del resto Jörg Asmussen, un bocconiano tedesco, bravo ma acerbo. Dietro di lui c’è la figura di Weidemann, vero osso duro con forti legami oltre Reno: ha studiato in Francia e sposato una francese. Non è stato ancora riempito il posto dello spagnolo José Gonzalez-Paramo. Draghi non ha un vero portavoce. Si muove con passo felpato e tiene lui i contatti che contano. Tra gli economisti sente Lucas Papademos, già numero due della Bce e sfortunato primo ministro di transizione in Grecia. Ha utilizzato l’uscita di Jürgen Starck, il rappresentante tedesco, per rimescolare gli incarichi. Berlino aveva sempre voluto l’ufficio economico, quello che prepara i dossier e detta la linea. Invece, ad Asmussen sono state affidate le relazioni internazionali. Al suo posto è andato il belga Peter Praet. Di nuovo una prova di abilità nella gestione degli uomini.

Quando sorride, Draghi è enigmatico come il gatto del Cheshire in Alice nel Paese delle meraviglie. Selettivo fino alla ossessione, sceglie con cura i compagni di tennis o di golf (passione d’età matura). Entrato al Tesoro nel 1982, consigliere del ministro Giovanni Goria, su raccomandazione di Beniamino Andreatta, si racconta che volesse sapere chi erano i commensali anche per andare a mangiare una pizza.

Le poche immagini private sono state rubate quasi per caso. A villa Borghese con una macchinetta fotografica in mano, accanto alla moglie Serena, padovana di famiglia nobile discendente da Bianca Cappello che sposò Francesco de’ Medici. Alla guida di una Smart con il telefonino all’orecchio. A Milano mentre insieme alla figlia Federica, biologa, aspetta la nipotina che esce da scuola. Il secondo figlio Giacomo lavora in Morgan Stanley e si è laureato con Francesco Giavazzi, amico di lungo corso.

A Francoforte Draghi ha preso casa accanto al parco del castello Holzhausen, una delle più antiche famiglie della città sul Meno. Torna nella sua Roma appena può, come il 24 maggio scorso per commemorare i 25 anni della scomparsa di Federico Caffè, con il quale si è laureato. «Qui mi ritrovo con gli amici di una vita» ha detto. Ma è stato attento a non canonizzare l’economista eccentrico sopraffatto dalla «solitudine del riformista» (titolo di un suo amaro pamphlet). Si sente con Fabrizio Saccomanni che ha riportato al vertice della Banca d’Italia e avrebbe voluto governatore. E con alcuni giornalisti importanti. Eugenio Scalfari, per esempio. O Giuliano Ferrara: una volta gli ha telefonato da Tel Aviv dove Draghi era andato a trovare il professore degli anni di Boston, Stanley Fischer. È rimasto in buoni rapporti con Antonio Padellaro, direttore del Fatto quotidiano, dai tempi del liceo Massimiliano Massimo. C’erano anche altri con lui, come Luigi Abete, Luca di Montezemolo, l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro.

Il suo segreto si nasconde proprio in quel tempo, racconta un amico. Ha perso i genitori molto presto e, a partire dai 9 anni, è stato di fatto adottato da padre Franco Rozzi, preside all’istituto romano della Compagnia di Gesù. Gli è sempre stato riconoscente. Tanto che, nominato governatore della Banca d’Italia, si è avviato a piedi in via degli Astalli, pochi metri da Palazzo Grazioli, residenza romana di Silvio Berlusconi, al pensionato dove il vecchio gesuita era ricoverato per dargli la notizia e salutarlo: i giornalisti pensarono che era andato a ringraziare il premier.

Lo irrita venire bollato come uomo della Goldman Sachs. Ci ha lavorato tre anni, 20 li ha passati nello Stato. Ha messo le sue azioni in un blind trust. Non le ha vendute, anche questo una conferma dell’innata prudenza. «Sono un grand commis» ripete. Atermico, d’inverno rifiuta il cappotto, un dettaglio apprezzato dal Financial Times («Sembra voler dire che è uno di noi»). Del resto passa da un’aria condizionata all’altra con piglio giovanile nonostante i quasi 65 anni. A Francoforte ha smesso di tingersi i capelli che si stanno ingrigendo, il profilo si è fatto più affilato, le rughe più profonde. Premi Nobel come Paul Krugman e Joseph Stiglitz lo accusano di essere prigioniero dell’ortodossia tedesca e degli interessi bancari. «A differenza di Bernanke, Draghi non punta a fare l’eroe» ha scritto Marketwatch del Wall Street Journal. Ma dice Sant’Ignazio: «Non prendere decisioni in base ad alcuna propensione che sia disordinata». E l’italiano con l’elmetto a punta, come lo ha raffigurato la Bild, quel precetto non l’ha mai dimenticato.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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