José Carreras, il cantante che investe nel made in Italy
Economia

José Carreras, il cantante che investe nel made in Italy

Il tenore di fama internazionale ha messo 400 mila euro in Alain, società bresciana di abbigliamento. Operazione strutturata con Banca Profilo di Matteo Arpe

José Carreras ce lo si può immaginare in un qualsiasi luogo del mondo tranne che in una banca d’affari. Non ha proprio senso. Tantopiù che il più grande tenore vivente è lì per (orrore!) fare un affare: investire 400 mila euro per comprare il 25 per cento di una società italiana dell’abbigliamento. In Alain, per la precisione, che prende il nome dal suo fondatore, il giovane bresciano Alain Fracassi.

Tutto inizia l’anno scorso quando Carreras viene invitato alla presentazione della collezione autunno-inverno della maison della quale spesso indossa i capi: “L’ho vista, mi è piaciuta” ci dice sorridendo. A quel punto entra in scena Marco Baga, direttore generale di Profilo Merchant, la divisione che si occupa di investimenti della Banca Profilo di Matteo Arpe. Baga mette in moto un’operazione del valore complessivo di circa 1 milione di euro mettendo insieme un guru del mercato fashion, Stefano Boglioli, il mito vivente della lirica e un giovane stilista che tutto si sarebbe immaginato tranne che un giorno avrebbe detto: “Il mio socio è José Carreras”.

Lui, il maestro, con uno sguardo timido, parla di tutto quello che sta capitando con una leggerezza da allegretto andante: “Io non ci capisco molto di moda, ma capisco il talento e questo ragazzo ne ha e per di più è italiano: per me è fantastico, perfetto! È per me una nuova avventura che mi piace intraprendere. Però non mi definisca ‘investitore’. Io non sono un investitore, per me è un modo per ringraziare questo Paese dell’affetto che mi ha sempre dimostrato e che continua a dimostrarmi anche ora…”. Si interrompe.

Forse vorrebbe dire “…ora che c’è la crisi…”, ma si trattiene. “La crisi? La cultura non è mai in crisi, semmai sono in crisi gli Stati che tagliano i soldi per sostenerla”. E quindi? “In America lo Stato fa ogni sforzo per sostenere la cultura. Ad esempio: il Metropolitan di New York incassa solo il 15 per cento del suo budget dallo Stato, il resto viene da privati. In Europa è spesso il contrario. Ci vorrebbero meno tasse su chi finanzia la cultura”, chiede il maestro sapendo di addentrarsi in un campo minato dal quale si ritrae.

Così, alla fine, si finisce a parlare di musica, di Milano e della Scala, naturalmente, “la mecca del bel canto dove chiunque darebbe tutto pur di poter cantare e dove spero di poter tornare anche io presto”. Poi sorride. E firma la nascita del marchio Alain. E ora, anche nella moda, “nessun dorma”.

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Marco Cobianchi

Sono nato, del tutto casualmente, a Milano, ma a 3 anni sono tornato a casa, tra Rimini e Forlì e a 6 avevo già deciso che avrei fatto il giornalista. Ho scritto un po' di libri di economia tra i quali Bluff (Orme, 2009),  Mani Bucate (Chiarelettere 2011), Nati corrotti (Chiarelettere, 2012) e, l'ultimo, American Dream-Così Marchionne ha salvato la Chrysler e ucciso la Fiat (Chiarelettere, 2014), un'inchiesta sugli ultimi 10 anni della casa torinese. Nel 2012 ho ideato e condotto su Rai2 Num3r1, la prima trasmissione tv basata sul data journalism applicato ai temi di economia. Penso che nei testi dei Nomadi, di Guccini e di Bennato ci sia la summa filosofico-esistenziale dell'homo erectus. Leggo solo saggi perché i romanzi sono frutto della fantasia e la poesia, tranne quella immortale di Leopardi, mi annoia da morire. Sono sposato e, grazie alla fattiva collaborazione di mia moglie, sono papà di Valeria e Nicolò secondo i quali, a 47 anni, uno è già old economy.

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