Corrado Passera: l'intervista
Economia

Corrado Passera: l'intervista

"Difendo le mie scelte su Alitalia e Telecom. E rilancio: con un progetto politico per l’Italia". Critico con il governo Letta, l’ex banchiere ed ex ministro rivela di lavorare a un piano per il Paese: quasi il manifesto di un partito.

«Quando ero in Banca Intesa ho investito in Telecom e in Alitalia, e lo rifarei. E non mi piace vedere la rete di Telecom in mani spagnole o un’Alitalia svenduta ad Air France a due soldi. Ma se parliamo di sovranità economica, temo ben altri problemi». Quali? «Senza una svolta radicale sulla politica economica e poi su tanti altri fronti, il Paese rischia la tenuta sociale e la perdita della sua sovranità economica, e quindi politica. Non possiamo perdere la nostra libertà e spalancare le porte alla troika (Fmi, Ue e Bce, ndr) pronta a commissariarci. Un rischio vero, se si dovesse andare a breve alle elezioni anticipate. Se invece si fa quadrato e si affronta subito l’emergenza come occorre, ce la si può ancora fare, e alla grande».

È sempre lui, Corrado Passera: primo della classe anche in pieno «sabbatico». Per molti è tra i principali imputati della crisi Alitalia, visto che fu lui o anche lui a costruire la cordata dei «patrioti» oggi in affanno; e anche della crisi Telecom, perché come Intesa è stato tra gli azionisti di riferimento del gruppo fino a due anni fa. Ma non accetta le accuse. Al contrario, ribatte. Difende il lavoro svolto nei suoi 16 mesi da ministro e la decisione di non salire sulla scialuppa di Scelta civica. Critica Mario Monti ed Enrico Letta, e rivela di lavorare a un programma per l’Italia, «un progetto completo di rilancio del Paese».

Il programma del suo partito, Passera?
Sto raccogliendo tante idee con tanta gente in gamba. Partiamo dai contenuti e dalle cose urgenti da fare, quale sarà il contenitore lo vedremo.

Un programma di destra o di sinistra?
Molti dei grandi cambiamenti necessari al Paese possono raccogliere un largo consenso trasversale. Così come c’è il trasversalismo «contro tutto» di Beppe Grillo dovrebbe essercene uno costruttivo e altrettanto radicale per rimettere in piedi l’Italia. Non aver usato le larghe intese per i cambiamenti stravolgenti di cui l’Italia ha bisogno è stato da irresponsabili.

Insomma, lei vuol fare politica?
La mia ansia non è questa. La mia ansia è il declino sempre più rapido del nostro Paese: economico, sociale e di credibilità. L’Italia può farcela, ma non di questo passo.

Qualcuno direbbe: meglio niente che fiaschi come l’Alitalia.
Con il niente si muore. Non è stato un fiasco salvare 15 mila posti di lavoro diretti e forse altrettanti indiretti, ricostruire una delle più moderne flotte europee, recuperare su tutti gli indici di qualità. L’Alitalia, malgrado una eredità pesantissima e la recessione mondiale, ha quasi raggiunto l’equilibrio della gestione industriale. In questi ultimi due anni la stessa Air France ha perso quasi 4 miliardi.

Non sarebbe stato meglio lasciarla andare appunto all’Air France? Non sarebbe costato meno allo Stato?
Il governo del tempo la offrì all’Air France, che si tirò indietro per le reazioni sindacali e la recessione incombente. Non furono gli strepiti di Silvio Berlusconi, come mi spiegò lo stesso capo di Air France, Jean-Cyril Spinetta. Quando la cordata italiana si presentò, non c’erano altri pretendenti. Senza la nuova Alitalia il fallimento della vecchia Alitalia sarebbe costato enormemente di più allo Stato.

E la Telecom? Chi gliel’ha fatto fare di investirci?
Fu un modo per evitare quel che stava per succedere e ancora rischia di succedere.

Cioè che vada a uno straniero?
Sì. Il punto è che le infrastrutture strategiche, come la rete delle telecomunicazioni, devono essere separate dagli utilizzatori, cosa che non si sta facendo nella svendita agli spagnoli. Inoltre queste infrastrutture richiedono grandi investimenti. Sia Telecom che la controllante Telefónica, oberate di debiti, non saranno in grado di assicurare gli investimenti che ci vorrebbero. Infine ci vuole passione per il Paese. E gli spagnoli hanno altre priorità.

Perché le reti devono essere autonome?
Per creare il massimo di concorrenza sui servizi e favorire il massimo di investimenti sulla rete da gestire con ottica di sistema. È il modello applicato prima per l’energia con lo scorporo di Terna e poi da me per il mercato del gas. La separazione della rete Snam dall’Eni era doverosa: per creare concorrenza non aveva senso che il principale fornitore di gas fosse proprietario della rete di distribuzione. Anche grazie a quella scelta, e alla nuova strategia energetica nazionale che ho portato in fondo, oggi vediamo la bolletta del gas finalmente scendere.

E lei cosa vorrebbe che accadesse alla Telecom, ora?
Bisogna riprendere la trattativa con la Cassa depositi e prestiti. La Cdp potrebbe coinvolgere altri investitori che condividano il progetto di assicurare all’Italia una rete competitiva.

Intanto altri pezzi pregiati dell’industria italiana hanno preso il volo…
È un peccato, ma a volte non ci sono nel Paese imprenditori disponibili. In alcuni casi qualcosa si può fare. Per esempio l’Avio Spazio: nelle prossime settimane la Finmeccanica può rilevarla dall’attuale azionista finanziario che altrimenti la venderà ad altri concorrenti internazionali. Sarebbe sbagliato perdere una nostra eccellenza tecnologica e commerciale che, tra l’altro, ha costruito la sua leadership anche grazie a 1 miliardo di attività di ricerca finanziata dall’Italia.

Ma se proprio il suo governo ha lasciato che la General Electric acquistasse l’altra Avio, quella dei motori! 
E l’abbiamo fatto con grande convinzione, perché abbiamo ottenuto dagli americani che ne facciano il loro polo globale di sviluppo nel settore, creando indotto qualificato e migliaia di posti di lavoro, come già avevano fatto con la Nuovo Pignone. Ciò che importa non è la nazionalità dell’azionista, ma l’impegno a sviluppare l’azienda e la ricaduta per il sistema Italia.

Sta di fatto che il capitalismo privato sembra essersi squagliato. Nonostante i «banchieri di sistema» com’è stato lei.
Si è squagliato il capitalismo di relazione, quello che passava per i salotti buoni. Ma il capitalismo privato italiano è quanto mai vitale: pensi solo a quelle 4 mila aziende italiane medio-grandi che fanno la stragrande maggioranza della ricerca e dell’export italiano, che rendono possibili quegli oltre 400 miliardi di esportazioni italiane in tutto il mondo, a capo di filiere d’eccellenza, nelle macchine utensili, nella meccanica  di queste azende con credito e, dove necessario, anche con capitale. Se questo significa essere banchiere di sistema, lo considero un complimento.

Però le banche, e anche la sua, hanno finanziato anche Ligresti, Zaleski, Rcs…
Posso parlare solo dei casi che conoscevo: i finanziamenti alla Tassara di Romain Zaleski sono sempre stati giustificati da valutazioni adeguate e alla fine, secondo me, la banca potrebbe non perdere nulla su questa posizione. Quanto all’Rcs, non c’era ragione di non sostenerla. La gestione non è poi stata all’altezza delle aspettative.

Sorpreso dall’uscita di Enrico Cucchiani?
Mi conforta che la nuova governance dell’Intesa Sanpaolo sarà costituita da persone, come Messina, Miccichè e Micheli, tra le migliori non solo nel settore bancario ma in tutta l’economia, gente che crede nella creazione di valore per gli azionisti ma anche nella responsabilità sociale dell’impresa, che ragiona a lungo termine, che ha rispetto per l’identità della banca.

Suoi amici. Invece nel Palazzo se n’è fatti pochi. Come mai?
Ho dovuto prendere decisioni difficili come nel caso delle Poste, ma lì ci fu il tempo di vederne i risultati e alla fine anche il sindacato ne fu orgoglioso. Ai ministeri si sono concentrate molte decisioni difficili in pochissimo tempo. Ho cancellato l’assegnazione gratuita delle frequenze televisive, il famoso beauty contest, ho messo fine allo scandalo degli incentivi al fotovoltaico che aveva già impegnato oltre 170 miliardi degli italiani, cancellato oltre 40 leggi di incentivazione vecchio stile, tolto la Snam all’Eni, fermato il ponte di Messina, sbloccato definitivamente la Torino-Lione, fatto il piano aeroporti, battagliato con il Mef per ottenere il pagamento dei debiti scaduti della Pa, incalzato la Fiat per la mancanza di investimenti, rotto le scatole a tutti per completare in tempo 152 decreti attuativi... Secondo me fare politica con la schiena dritta comporta anche di non avere solo amici.

Parla come se fossero state scelte tutte solo sue. E Mario Monti?
In taluni casi mi sono sentito effettivamente poco sostenuto. Ma non importa. Ciò che conta è che molte delle cose positive che volevamo fare le abbiamo fatte: dalla strategia energetica nazionale alla nuova normativa sulle start-up, dai 50 miliardi di progetti infrastrutturali alla disintermediazione bancaria con i minibond, alle norme proconcorrenza nel settore assicurativo, a...

Allora è un incompreso, perché di queste cose s’è parlato poco.
Fare il ministro dello Sviluppo in una fase di recessione drammatica difficilmente comporta applausi. E molte delle riforme che abbiamo finalmente fatto avevano bisogno di qualche tempo per dispiegare i risultati. Già oggi se ne vede più di uno: il prezzo dell’energia che cala, le migliaia di nuove start-up, il finanziamento delle medie imprese con miliardi di minibond collocati sul mercato.

Boicottato sui media dal suo ex datore di lavoro Carlo De Benedetti? L’aveva definita «un buon assistente» e lei l’ha bollato come la «delusione» del capitalismo italiano.
I giornalisti decidono in proprio.

Monti voleva tutti i riflettori per sé?
All’inizio, tutti insieme, abbiamo salvato l’Italia. Poi s’è perso slancio e coraggio, non si è trovata la stessa incisività sullo sviluppo come sui tagli e certamente questa è una delle ragioni per cui le nostre strade hanno cominciato a dividersi. La separazione è poi avvenuta quando Monti ha presentato un’agenda per l’Italia a mio parere inadeguata e una formazione politica poco innovativa.

E adesso arriva lei col suo partito...
Con un progetto coraggioso, a cui sto lavorando ogni giorno con un gruppo di persone di qualità e passione che tengono al Paese e credono nella possibilità che riparta. Sapendo, però, che la situazione è drammaticamente peggiorata, sia dal punto di vista economico sia da quello della democrazia e delle istituzioni, e che gli ultimi 12 mesi di inazione quasi totale pesano.

Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni, allora?
È un anno che siamo fermi. Dalla seconda metà del governo Monti a oggi non si sta facendo quasi nulla di proporzionato alla dimensione dei problemi e delle opportunità che abbiamo. All’inizio della crisi avevamo 5 milioni di persone senza lavoro o con un lavoro insufficiente, oggi sono raddoppiate. Così rischia di saltare tutto, anche la coesione sociale. Se aggiungiamo le tante aziende in difficoltà e quelle che decidono di andarsene, si ha l’idea dell’estrema impellenza di interventi che servono.

E allora?
Bisogna agire subito sia sulla parte economica sia su quella istituzionale. Non basta un progetto tecnico o un governo tecnocratico. Bisogna ripensare il funzionamento delle istituzioni, ridisegnare il federalismo, dev’essere chiaro chi fa cosa. Il governo va riorganizzato, una Camera sola deve bastare, va riscritta la legge elettorale, che oggi espropria i cittadini del diritto di scegliere. Sul fronte economico, o facciamo un intervento di rilancio dell’economia capace di smuovere qualche centinaio di miliardi di euro, tra fondi pubblici e privati, tra capitale e credito, oppure non riusciremo ad agganciare l’economia mondiale.

In concreto?
Tanto coraggio, intervenendo su tutto insieme. Con il gradualismo non si risolve più nulla. Qualche esempio: c’è da ridisegnare la fiscalità tra individui e imprese, da riequilibrare la pressione erariale tra lavoro e capitale, aumentare i redditi disponibili e contemporaneamente la produttività, reprimere l’evasione, rimettere in gioco gli asset pubblici, di cui neanche il 10 per cento viene messo al servizio della crescita. Bisogna piantarla con i tagli lineari quando ci sono settori che vanno azzerati e altri potenziati. C’è un enorme lavoro da fare. La pubblica amministrazione aveva appena iniziato a cambiare. Ha 4 mila centri di elaborazione dati, probabilmente ne bastano 40; ha 9 mila anagrafi, ce ne deve essere una sola. Se l’Italia non svolta, declina verso la povertà. Se invece cambia strada, è un Paese che può giocarsi una partita di successo nel mondo globalizzato.

Quando l’annuncio del suo nuovo partito?
Le ripeto, per ora è un programma politico. Per esempio non le ho parlato della giustizia bloccata, dell’istruzione che produce disoccupati, del potenziale del terzo settore e dei mondi legati alla cultura.

Lo fa o non lo fa, questo partito?
Ma lo vede che ci casca pure lei? Parliamo solo di contenitori, sigle, partiti, e non di cosa serve all’Italia. È questa la vera priorità, soprattutto in un Paese dove programmi, idee e impegni passano in secondo piano. È questo che devono valutare gli italiani. E gli elettori.

È un parlare da candidato premier…
È il parlare di uno che ha a cuore l’Italia e che è impegnato a dare il suo contributo.

Come si chiama la sua fondazione?
Perché continua a chiedere della carrozzeria dell’auto quando io sto cercando di parlare della strada che vorrei che l’Italia percorresse?

Torniamo al pratico: in questo progetto ci sarà la trasformazione della Cassa depositi e prestiti nella nuova Iri?
La Cassa è uno strumento formidabile di politica economica e industriale solo in parte utilizzato, che ha dentro molte persone in gamba, e che l’azionista governo dovrebbe usare meglio e di più.

Nel progetto ci sarà la smaterializzazione del contante contro l’evasione fiscale?
Senza mettere a rischio il diritto alla privacy, sì. La lotta al contante, che deve rendere bassissimo il costo della moneta elettronica, è uno degli snodi fondamentali per cambiare il Paese.

Farebbe il ministro dell’Economia di un governo di Matteo Renzi?
Per fare cosa? E con chi altri? Renzi ci starebbe a un governo di vera rottura col passato, che vada oltre le logiche interne del suo partito e del breve periodo?

E con Angelino Alfano, governerebbe?
Stessa risposta che per Renzi.

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Sergio Luciano